Assistere alla proiezione di A Quiet Place in un cinema affollato è un’esperienza strana e coinvolgente. Il silenzio è pressoché totale, rotto solo dai più indomiti sgranocchiatori di popcorn, mai così fastidiosi. In un mondo di cinema reso sempre più avvolgente anche grazie al 3D, John Krasinski sceglie di immergere gli spettatori nel suo film non aggiungendo dimensioni ma togliendole.
Nel futuro post apocalittico di A Quiet Place la Terra è stata invasa da una nuova razza, presumibilmente di origine extraterrestre e decisamente ostile. Non c’è modo di combattere gli invasori; i pochi umani sopravvissuti hanno un’unica possibilità: restare in silenzio per non essere individuati dagli alieni, che appaiono ciechi ma dotati di un udito finissimo.
Anziché attraverso i soliti combattimenti militari da “guerra dei mondi”, Krasinski ci mostra l’invasione dal punto di vista di una famiglia che si è rifugiata in campagna, in solitudine, vivendo in una casa circondata da boschi, comunicando quasi esclusivamente con la lingua dei segni, abilità che il gruppo ha sviluppato avendo una figlia sordomuta, e naturalmente evitando in tutti i modi di fare il benché minimo rumore.
In questa specie di versione distopica di Walden non sembra esserci un possibile futuro: la morte è la conseguenza quasi garantita di ogni minimo sbaglio; un urlo disperato corrisponde a un suicidio; persino la speranza data da una nuova nascita diviene fonte di terrore, per l’impossibilità di nascondere i vagiti del neonato, e contribuisce alla costante tensione che corre per tutta la durata del film.
Ma è appunto grazie al silenzio obbligato dei protagonisti che A Quiet Place rompe la quarta parete; le raccomandazioni del padre ai suoi familiari diventano ordini per il pubblico: “Se vuoi vivere non fare alcun suono”. Lo spettatore viene coinvolto nello spietato gioco del silenzio (a cominciare da #StayQuiet, hashtag usato per il lancio del film); la cura che mettono i protagonisti in ogni singolo movimento diventa quella dell’intera sala, contribuendo all’empatia verso la famigliola di superstiti, vero oggetto del racconto, e all’attenzione per ogni più piccolo gesto e per ogni minimo cambio di espressione degli attori.
La riflessione sul cinema di A Quiet Place si pone a sua volta nel campo del confronto tra suono e silenzio. Quando negli anni ’20 venne introdotto il sonoro, alcuni “puristi” storsero il naso: il cinema muto era il luogo della riflessione, della poesia; ai loro orecchi le nuove pellicole sonore sembravano volgari al confronto. Charlie Chaplin al suo primo film non muto, Tempi moderni, mantenne nel mutismo quasi assoluto il suo amato Charlot, introducendo effetti sonori e alcune battute parlate ma non dialoghi completi.
Intendiamoci, A Quiet Place è tutt’altro che un film muto: i jump scare tipici del filone horror si sprecano, rischiando anche a tratti di banalizzare l’attento lavoro che caratterizza una sceneggiatura altrimenti perfetta, assieme alle citazioni cinematografiche (Hitchcock e Spielberg soprattutto). Ma Krasinski ci pone di fronte a un’opera in cui il silenzio è una necessità (nascondersi dagli alieni) o una condizione (la figlia sordomuta), immergendoci nei due diversi mondi: il primo quello in cui il suono è presente ma è uno spazio non occupabile, pena la morte, il secondo quello in cui il suono è del tutto assente e manca a livello di dimensione. Curiosamente è proprio la dimensione mancante che nasconde la possibilità del cambiamento. Come nella storia, il “posto tranquillo” diviene un antidoto e un rifugio contro l’invasione onnipresente di esplosioni ed effetti del cinema d’azione e di fantascienza di questi tempi.