Categoria: Cinema

  • Architetture dell’orrore: le case maledette di Dario Argento

    Architetture dell’orrore: le case maledette di Dario Argento

    Dario Argento ha ridefinito il thriller e l’horror trasformando la violenza in una vera e propria esperienza visiva, coreografata con un’estetica che mescola bellezza e orrore. Nei suoi film, dal rivoluzionario L’uccello dalle piume di cristallo fino a Opera, l’omicidio diventa un atto quasi rituale, immerso in un universo cromatico e sonoro ipnotico. Ma c’è un altro elemento chiave nella sua poetica dell’orrore: l’architettura. Gli spazi nei suoi film non sono solo ambientazioni, ma veri e propri labirinti visivi e psicologici, carichi di simbolismo e tensione.

    Uno degli elementi più distintivi del cinema di Argento è l’uso espressivo della luce e del colore. Nei suoi primi film, la fotografia di Vittorio Storaro (L’uccello dalle piume di cristallo) e Luigi Kuveiller (Profondo Rosso) gioca con il contrasto tra ombre e bagliori improvvisi, creando un senso di pericolo costante. Con Suspiria, Luciano Tovoli porta questa tendenza all’estrema sperimentazione, utilizzando una palette cromatica surreale e fauve, dominata da rosso e blu neon, ispirata alle tecniche del Technicolor; per il film Argento cercò appositamente pellicole Kodak utilizzate negli anni ’50, che permisero un’attenta elaborazione del colore. Da elemento del”orrore, Il sangue diventa un vero e proprio colpo di pennello prima sulla tela di celluloide e quindi sul telone dello schermo cinematografico.

    Le sequenze di omicidio nei film di Argento non sono mai semplici atti di violenza: sono coreografate con una precisione quasi rituale. In Profondo Rosso, la macchina da presa indugia sui dettagli: lame che scintillano, occhi spalancati dal terrore, gocce di sangue che cadono al rallentatore. In Tenebre, la violenza diventa ancora più astratta, con omicidi immersi in scenari ipermoderni freddi e luminosi, in contrasto con le atmosfere ipercromatiche e gotiche delle opere precedenti. La celebre scena del delitto con la macchina da presa che si muove attorno alla casa di una delle vittime è un perfetto esempio della ricerca estetica di Argento.

    Le case non sono semplici scenografie, ma organismi viventi, costruzioni che sembrano possedere una volontà propria e intrappolare i protagonisti in un incubo senza via d’uscita. Tre film in particolare evidenziano questa visione: Suspiria, Inferno e Phenomena.

    L’Accademia di danza di Friburgo in Suspiria è uno degli edifici più iconici del cinema horror. Ispirato allo jugendstil tedesco, l’esterno dell’edificio è caratterizzato da una facciata rossa e dorata, quasi fiabesca, che nasconde al suo interno un mondo di incubi. Gli interni dell’accademia sono un tripudio di colori innaturali: corridoi illuminati da luci rosso sangue, stanze con vetri colorati e decorazioni barocche che aumentano la sensazione di straniamento. L’architettura diventa una trappola visiva, dove il colore stesso partecipa alla narrazione, sottolineando la dimensione onirica e inquietante della storia.

    Se in Suspiria l’accademia è un luogo oppressivo ma ancora tangibile, in Inferno l’architettura si trasforma in un incubo surrealista. Il film, che riprende e prosegue la mitologia delle Tre Madri, è ambientato in edifici decadenti che si trasformano in spazi frammentati di cui sembra impossibile definire una mappa. L’architettura diventa un vero e proprio labirinto dell’orrore: corridoi infiniti, stanze sommerse d’acqua dove i personaggi rischiano di annegare, finestre che nascondono segreti mortali. Il palazzo è un’entità quasi viva, un meccanismo infernale che trascina i protagonisti nella follia.

    In Phenomena, Argento abbandona le geometrie ipnotiche delle città per immergersi in un paesaggio alpino, ma l’architettura rimane un elemento essenziale. L’orfanotrofio svizzero in cui è ambientata parte della storia è, similmente a Suspiria, un luogo di disciplina e oppressione, che contrasta con la libertà e la purezza della natura circostante, rispecchiate nella protagonista, “strega” unicamente perché “diversa” nel suo amore incondizionato per la natura. Ma è la casa dell’assassino, situata vicino a un torrente e isolata tra i boschi, a diventare l’epicentro dell’orrore. Il suo design è meno espressionista rispetto agli edifici di Suspiria e Inferno, ma mantiene la sensazione di trappola ineluttabile: scale ripide, porte sbarrate, stanze segrete che portano a bagni di putrefazione e un senso costante di minaccia che avvolge gli ambienti.

  • The Dune Sketchbook di Hans Zimmer: il suono del deserto

    The Dune Sketchbook di Hans Zimmer: il suono del deserto

    Hans Zimmer è noto per il suo approccio innovativo alla musica da film, ma con The Dune Sketchbook ha realizzato qualcosa di diverso: una collezione di tracce che vanno oltre la semplice colonna sonora, esplorando in modo più libero e sperimentale l’universo di possibilità sonore di Dune. Questo disco, pubblicato separatamente dalla colonna sonora ufficiale del film di Denis Villeneuve, si avvicina all’estetica del rock progressivo, rendendolo un’opera di grande interesse per gli appassionati di musica oltre che per i cinefili.

    Mentre la colonna sonora ufficiale di Dune accompagna il film con una struttura più convenzionale, The Dune Sketchbook è un viaggio autonomo. Composto da tracce più lunghe, alcune delle quali superano i dieci minuti, l’album si avvicina alla struttura tipica di molte suite progressive. Qui Zimmer si prende la libertà di sviluppare le sue idee musicali senza la necessità di aderire rigidamente ai tempi narrativi imposti dal montaggio cinematografico.

    Il sound si distingue per la sua atmosfera intensa, l’uso di strumenti esotici e voci evocative che sembrano emergere da un tempo e uno spazio remoti. L’elettronica pulsante si mescola a strumenti acustici e percussioni tribali, creando un paesaggio sonoro tanto alieno quanto affascinante. Questo approccio richiama il modo in cui le band prog degli anni ‘70 costruivano i loro mondi sonori, a volte influenzati dalla fantascienza e dall’esplorazione interiore.

    Il rock progressivo ha sempre avuto un’affinità con le narrazioni epiche e con la fantascienza. Del resto, la colonna sonora della prima trasposizione cinematografica del romanzo di Frank Herbert fu composta dal gruppo rock dei Toto. Sebbene l’approccio dei Toto fosse più vicino al rock sinfonico, anch’esso mostrava una certa inclinazione progressive. Zimmer, invece, adotta un approccio più sperimentale, basato sulla costruzione di texture sonore piuttosto che su melodie tradizionali.

    Se The Dune Sketchbook è una sorta di esperimento musicale libero, la colonna sonora ufficiale di Dune è più orientata a supportare la narrazione cinematografica. Qui le tracce sono più brevi e funzionali, anche se mantengono molte delle caratteristiche timbriche ed evocative dello Sketchbook. Alcuni temi ricorrenti si ritrovano in entrambe le versioni, ma nell’album principale sono più compressi e adattati alle esigenze del film.

    The Dune Sketchbook costituisce un mondo musicale indipendente e si presta a un ascolto più immersivo e meno immediato svincolato dalle immagini dei film. In un certo senso, il rapporto tra i due album è simile a quello tra un concept album prog e un disco più orientato al singolo: il primo è un’esperienza d’ascolto che richiede tempo e attenzione, il secondo è più diretto ed efficace nel suo scopo.

  • La verifica incerta, ovvero l’attualità di Videodrome

    La verifica incerta, ovvero l’attualità di Videodrome

    Si tende spesso a giudicare “profetica” un’opera che ha anticipato temi, problemi o eventi. In realtà, la riflessione sul presente e sulle possibili consguenze future ha ben poco di profetico: come in una partita a scacchi, si pensa alle mille possibili svolte portate dalle nostre azioni e ai loro effetti.

    In questo, Videodrome, film di esattamente quarant’anni fa, manifesto delle ossessioni del canadese David Cronenberg, non ha sbagliato una mossa. Pur restando saldamente all’interno del brainframe televisivo, Cronenberg ha esplorato, tra gli altri temi, la perdita della capacità di distinguere tra vero e falso, tra realtà e finzione.

    La medializzazione della società porta all’inevitabile perdita di controllo diretto, e quindi di verifica, sul nostro mondo elettronicamente allargato, al cui interno si verificano eventi al di fuori della nostra diretta portata. Il protagonista di Videodrome si trova di colpo a viver in un mondo in cui allucinazione, ricordi, realtà e percezione si confondono al punto da risultare indistinguibili. L’unico discrimine sembra poter essere quello dell’evidente assurdità e improbabilità di ciò che appare accadere, ma anche questa certezza sembra priva di fondamento in un mondo in cui quasi tutto subisce un’accelerazione verso l’eccesso e il paradosso, in cui qualunque evento, per quanto assurdo ci possa sembrare, suona comunque come verosimile. Tutto ciò che sembrava impossibile appare oggi come una probilità, sia per l’avanzamento tecnologico, sia per la degenerazione del comportamento sociale o del linguaggio politico.

    La scelta di una realtà, nel senso di accettare ciò che può essere reale, diventa per alcuni una questione di credo personale, come un atto di fede; allarmante deriva che porta a un preoccupante relativismo più che a una indipendenza di pensiero, ad abbracciare una spiegazione qualunque che non a sviluppare le abilità necessarie per sceglierne consciamente una in particolare.

    Cronenberg spingeva questo all’eccesso anche nella materia: l’allucinazione è parte di noi e modifica a livello fisico il nostro corpo (nella metafora, la società), rendendoci capaci (o incapaci?) di atti in apparenza folli ma perfettamente logici in un ambiente informativamente privo di coerenza, in cui l’assurdo può essere vero perché ciò che sembrava assurdo si è già dimostrato vero.

  • Dune: le sabbie della distruzione

    Dune: le sabbie della distruzione

    Dune è uno di quei film che spingono per natura al confronto con il libro da cui sono tratti, inevitabilmente socntrandosi con la classica questione della lettura personale: ogni lettore ha un proprio Dune personale, una visione soggettiva e giocoforza parziale del romanzo. Qualunque trasposizione cinematografica non può raggiungere la perfezione per tutti proprio perché infinite sono le interpretazioni personali della scrittura.

    Denis Villeneuve ha fatto di Dune il suo Dune, nello stile a cui siamo ormai abituati con Arrival e Blade Runner 2049: immagini potenti, livelli di lettura a diverse profondità, obiettivo puntato sui sentimenti dei personaggi. I temi più politici e sociali di Frank Herbert sono lasciati sullo sfondo: l’ecosistema del pianeta, le complesse lotte per il controllo della galassia, i sottili giochi di alleanze tra le potentissime corporazioni, il misticismo e l’attesa del salvifico messia sono appena accennati o non sembrano avere grande influenza sullo sviluppo quanto invece il percorso di crescita del protagonista e la rappresentazione visiva che costituisce il vero oggetto della messa in scena.

    Il giovanissimo Paul Atreides è, in questa prima parte, un giovane erede di un ducato distrutto e il frutto di centinaia di anni di pazienti tessiture genetiche, sociali e religiose volte a fare di lui una specie di profeta e leader spirituale; è un profeta e leader riluttante, che dubita di se stesso e non vuole accettare il ruolo che una Storia più grande di lui vorrebbe fargli incarnare, tormentato da visioni che gli rinfacciano un futuro già scritto da decine di generazioni, senza libero arbitrio o diritto di scelta, con poteri che non vuole e che lo trasformano ogni giorno di più in un predestinato. Ogni evento è per lui un déjà vu, che gli propone il presente come un continuo flashback da un futuro a cui non vuole arrivare. La circolarità del tempo, già benedizione e maledizione in Arrival, suggerisce continuamente soluzioni che permettono di superare le difficoltà ma conducono verso un ineluttabile percorso di morte e distruzione.

    Il mondo di Dune è un nuovo medioevo, in cui i computer non esistono più perché considerati inaffidabili; le macchine sono quasi pura meccanica. Nel film tutto ciò priva i set della tecnologia, in genere onnipresente nella fantascienza, lasciando scenografie spoglie in cui emergono solo pochi oggetti essenziali. Tutto è sproporzionato e disumano: le distanze spaziali sono inimmaginabili, i palazzi giganteschi, le stanze altissime e buie, il deserto del pianeta Arrakis una ignota distesa di infinite possibilità attraversato da vermi lunghi centinaia di metri. Le astronavi non hanno nulla di aerodinamico e sono piuttosto monumenti usciti da un incrocio tra gli oggetti surreali di René Magritte e i monoliti di Stanley Kubrick, residui di civiltà antiche al pari delle piramidi egizie. Gli edifici sono disumani blocchi di cemento che, per difendere gli abitanti dallo spaventoso calore del pianeta, offrono alla luce solo poche feritoie.

    Il raffinato production design di Villeneuve non concede sfumature in un mondo rigorosamente in bianco e nero, che non lascia spazio ad altro colore che a quello della preziosa spezia: su Arrakis la luce è morte e l’oscurità è vita; ma è invece proprio nell’oscurità che gli Atreides trovano la morte per mano dei loro spietati nemici, Harkonnen e Sardaukar imperiali, che a loro volta fanno del nero il loro tratto distintivo.

    Gli spaventosi vermi delle sabbie sono quasi invisibili, più forze della natura che creature viventi, rappresentati come onde di tempesta sabbiosa o terrificanti voragini che si aprono all’improvviso inghiottendo indifferentemente qualsiasi cosa. I loro passaggio segna la morte ma ancora di più l’annullamento dell’umano e dei suoi sforzi vitali. La sabbia è la vera protagonista, unheimlich che non concede scampo e tutto occupa, sguardo dello spettatore compreso. Dune è un viaggio iniziatico e terminale verso l’annientamento di ciò che rimane della civiltà dell’immagine e dei suoi feticci, in cui paradossalmente la forma del sabbioso nulla è in sé l’unico contenuto.

  • Città tumorali: i grattacieli e le catacombe di Metropolis

    Città tumorali: i grattacieli e le catacombe di Metropolis

    In bilico tra espressionismo e futurismo, la megacittà di Metropolis, film del 1927 di Fritz Lang, è uno degli esempi più imitati e influenti della storia del cinema, da Blade Runner di Ridley Scott al Quinto elemento di Luc Besson.

    La città, come il suo simbolo, il grattacielo, è sviluppata in verticale in entrambi i versi e così la società che la abita: più si sale e più l’architettura si fa magnifica, ariosa, riservata a pochi eletti; più si scende, molto sotto la superficie, e più lo scenario, pur mantenendo lo spettacolare gigantismo, si fa povero, ruvido, ostile. Non ci sono vie di mezzo o classi intermedie: in alto risiedono i ricchi industriali, in basso i lavoratori. La soluzione proposta di Lang (il “cuore che deve mediare tra cervello e mani”) non è rivoluzionaria in senso marxista e nemmeno socialista, ma è evidente il conflitto di classe tra ricchezza del capitalismo e povertà al confine con il sottoproletariato.

    Metropolis, che in superficie ricorda i progetti futuristi di Antonio Sant’Elia, con grattacieli che diventano le nuove chiese (non a caso il film si chiude sul tetto di una cattedrale), nei sotterranei degenera nel fumo delle periferie della seconda rivoluzione industriale: macchine gigantesche e mostruose, a cui lavorano fino letteralmente allo sfinimento gli abitanti del sottosuolo, ingranaggi, pistoni, valvole, scarichi sembrano alienati dal loro scopo quanto i disgraziati che li fanno funzionare. Le macchine servono a mantenere lo stile di vita di chi vive in superficie, ma dal loro aspetto la funzione è indeducibile: non si colgono differenze tra centrali elettriche, fabbriche, servizi.

    I palazzi dei lavoratori sono slum verticali da edilizia popolare, non seguono il razionalismo architettonico ma sono invece costruiti quasi casualmente, ammucchiati. Attraverso le vie che li collegano si giunge a neo-catacombe, caverne/gallerie di miniera dove il massimo dell’artificialità è il puro e semplice scavo nella roccia. Sono cunicoli fuori controllo, edilizio e sociale, che si riempiono di un’umanità distrutta in cerca di una nuova speranza, che giunge attraverso un messaggio quasi profetico.

  • Spider-Man: un nuovo universo metamediale

    Spider-Man: un nuovo universo metamediale

    La storia delle origini di Spider-Man è già stata raccontata innumerevoli volte; ecco perché alla sua ennesima reincarnazione in Spider-Man: un nuovo universo il nuovo Uomo Ragno si trova circondato dai suoi omologhi provenienti da universi paralleli che narrano il medesimo, archetipico racconto, se pur con minime differenze: il personaggio si è auto-metabolizzato, è diventato conscio di essere personaggio, racconta la sua storia dando per scontati particolari che tutti ormai conoscono in quanto spettatori o lettori delle sue avventure.

    Nel film splendidamente e lussuosamente animato di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman il giovane Miles Morales sogna di essere Spider-Man come milioni di altri fan, abitanti del suo e del nostro universo. Un nuovo universo si appoggia alla nostra paura e desiderio di essere Spider-Man: Miles è uno di noi, è il lettore del fumetto che diventa prima cosplayer e poi, grazie al solito (sempre il solito) ragno radioattivo, il nostro nuovo amichevole supereroe di quartiere.

    L’investitura è ufficializzata con il suo diventare fumetto, con pensieri che d’improvviso si concretizzano sullo schermo in didascalie e appoggiature. Del resto, la storia di ognuno dei molti Spider-Man del film (come anche i loro racconti e i loro piani) è raccontata in un fumetto animato; per parlare di se stesso, il personaggio diventa metafumetto e metafilm. Persino il flashback familiare dell’acerrimo nemico Kingpin è reso con il tratto matita dello studio per una graphic novel.

    Non c’è solo l’universo Marvel in questo film. I riferimenti cinematografici e letterari sono innumerevoli, a partire dai rapporti quasi shakespeariani della famiglia Morales.

    Ogni Spider-Man, Spider-Woman, Spider-Ham indossa il proprio personaggio con una diversa grafica, ambientazione, musica: il mondo di Miles è immerso nella cultura hip hop, del rap e dei coloratissimi writing; Spider-Man Noir è un personaggio hard boiled dei film in bianco e nero di ispirazione chandleriana; Peni Parker pare uscita dalle chine di un mangaka. L’oggetto MacGuffin attorno a cui ruota la narrazione perde persino il suo nome e, come il flacone maltese di derivazione ancora shakespeariana, è la materia di cui sono fatti i sogni, dei protagonisti del film e di noi suoi spettatori.

  • La genitorialità ai tempi degli zombi

    La genitorialità ai tempi degli zombi

    Il mondo post apocalittico degli zombi non è esattamente un parco giochi per bambini; per sopravvivere bisogna essere adulti in grado di correre e sparare.

    Fin dai classici film di Romero i bambini sono vittime e mai protagonisti. Gli adulti, genitori e non, si trovano spesso nei loro confronti nell’atroce ruolo dei carnefici più che in quello dei salvatori. Non li si può biasimare, visto che dal canto loro, i piccoli hanno la pericolosa tendenza a cadere vittime dei morti viventi e a trasformarsi a loro volta in piccoli ma voraci consumatori di carne umana viva.

    La notte dei morti viventi

    Cadono quindi sotto i colpi dei fucili prima la piccola Cooper, che uccide e divora i suoi genitori nella Notte dei morti viventi, poi i due anonimi bambini (nella realtà figli del regista) in Zombi.

    Sopravvive comunque una speranza, incarnata proprio da una nuova generazione. Una dei due sopravvissuti a Zombi è incinta e nel Giorno degli zombi vediamo nell’ultima scena la protagonista segnare i giorni che passano su un calendario, forse per ricordare il tempo trascorso dopo l’apocalisse o quello che resta prima di un parto.

    I morti viventi, a differenza dei vivi, non si riproducono; la loro è una società sterile, costretta a perpetuare se stessa solo in modo conservativo, e, a lungo termine, a decadere nella putrefazione. L’aumento dell’orda è basato unicamente sull’assimilazione: zombi si diventa, non si nasce. La possibilità di figliare rimane prerogativa e tratto distintivo dei viventi, parte minoritaria e rivoluzionaria rispetto alla massa dei morti deambulanti.

    E’ proprio dalla difesa dei figli e, per estensione, delle nuove generazioni, che muove un nuovo filone del genere nel mondo del post 11 settembre. In particolare due film sono accumunati dal senso di incertezza e disorientamento di fronte a fenomeni globali, che colpiscono gli indifesi cittadini americani a casa loro e nei loro affetti familiari.

    World War  Z

    In World War Z il protagonista è un superagente dell’ONU incaricato di trovare una cura per il morbo che sta trasformando l’umanità in una unica, gigantesca orda di morti viventi; ma è anche, e prima di tutto, un padre che lotta per salvare la sua famiglia, che verrà protetta dal governo solo fino a quando lui sarà utile in qualche modo: nella glaciale logistica della sopravvivenza non c’è spazio per chi non è direttamente attivo. Brad Pitt si trova quindi a inseguire un ipotetico vaccino in un tour forzato intorno al pianeta per salvare sì il destino della razza umana ma soprattutto quello di sua moglie e dei suoi figli.

    Contagious - Epidemia mortale

    Se nella guerra mondiale contro gli zombi c’è la speranza nella scienza medica e nella sua unione globale, in Contagious – Epidemia mortale (brutto titolo italiano per il più significativo originale Maggie) non c’è alcun rimedio: il vecchio padre Schwarzenegger è costretto ad assistere impotente alla progressiva e inesorabile zombificazione della figlia adolescente.

    Politicamente repubblicano, il personaggio interpretato da Schwarzie resiste alle pressioni del governo affinché consegni la figlia a un centro di quarantena, dove i “morituri” sono tenuti ammassati in attesa del colpo di grazia. Ma la sua è anche una battaglia per il diritto a una eutanasia autodeterminata, per quando il processo, simile a un cancro, sarà arrivato alla fine: il padre, erede della frontiera del vecchio West, resta con la figlia fino all’ultimo, pronto a spararle per risparmiarle la non-vita degli zombi.

  • La notte dei morti viventi

    La notte dei morti viventi

    Cinquant’anni fa, nell’ottobre del 1968, usciva nei cinema La notte dei morti viventi di George A. Romero. Il film fu uno choc visuale, culturale e politico. Fu uno choc anche per i malcapitati bambini e ragazzi che assistettero alle prime proiezioni, dato che non esisteva divieto ai minori (il nuovo sistema sarebbe sato introdotto solo il mese successivo) e fino a quel momento gli innocui horror che sfuggivano al Codice Hays erano stati considerati adatti per qualche spavento giovanile e accessibili ai più piccoli nelle proiezioni pomeridiane. I testimoni parlarono di spettatori piangenti e urlanti oppure ammutoliti dal terrore e disorientati dal finale.

    Il pubblico era abituato ai film dell’orrore “non filtrati” come puro intrattenimento, dove Dracula, l’Uomo lupo e altri simpatici mostri spaventavano ma divertivano, dove il Male veniva sconfitto e il Bene trionfava, all’insegna di un tranquillizzante happy end e di un ben poco impegnativo manicheismo.

    Qui i mostri non avevano nemmeno un nome (nel film non si usano mai termini come “zombi” o “morto vivente”), non avevano alcuna caratteristica romantica come un vampiro e nessuna fascinazione fantascientifica come la creatura di Frankenstein o gli invasori marziani; erano semplicemente morti che camminavano, persone decedute qualunque senza altro scopo che quello di divorare i vivi.

    L’eroe era un nero e finiva ucciso, in un paese che stava faticosamente uscendo dall’apartheid e per giunta a pochi mesi dall’assassinio di Martin Luther King. Nessuno dei protagonisti aveva le idee chiare su come far fronte alla situazione, a parte quello più odioso e antipatico che per giunta sembrava inaffidabile fino alla fine. Il piccolo gruppo di assediati invece di unirsi per escogitare una strategia di fuga si perdeva in conflitti interni. Negli USA disorientati dalle vicende della guerra del Vietnam la fiducia nei leader vacillava, le certezze di sempre crollavano una dopo l’altra.

    La solida famigliola americana anni ’60 perdeva ogni connotazione rassicurante quando la figlioletta attaccava e divorava madre e padre, senza mostrare alcun sentimento, nemmeno odio o rivalsa; dopo che i genitori avevano fatto di tutto per proteggerla, la bambina li sbranava e finiva a sua volta uccisa dall’eroe “buono”.

    Le riprese erano realistiche, con una camera a mano in costante movimento che dava un tono frenetico e concitato, una via di mezzo tra il filmato amatoriale, con un bianco e nero a grana grossa, e il mockumentary; per contrasto, le scelte di angolature e le prospettive esagerate, in stile quasi espressionista, distorcevano la realtà rendendola ancora più spaventosa e claustrofobica.

    Con un gruppo di attori quasi tutti non professionisti, poco più di centomila dollari di budget (il film ne incassò circa trenta milioni), effetti speciali che mostravano orrendi e verosimili pasti a base di carne umana, Romero metteva insieme lo zombi di origine haitiana con i vampiri di Io sono leggenda, in una forma inedita che incarnava, condannandoli, diversi aspetti della società dell’epoca e si fondeva con la pulsione di morte freudiana. Per la prima volta il mostro non discendeva più o meno inconsciamente da una paura collettiva (la scienza fuori controllo, l’incubo radioattivo, il nemico russo) ma era la metafora voluta e cercata del suo stesso pubblico, che affollava le sale per cibarsi a sua volta delle vittime dei morti.

    Infine, Romero inaugurava una serie apparentemente infinita di pellicole, variazioni sul tema, remake, parodie, che dura ancora oggi, diffondendo la figura del morto vivente anche oltre lo schermo, fino a renderlo un personaggio popolare. Dopotutto, i morti viventi siamo noi.

  • Storia di un fantasma e dell’ineluttabile lentezza del tempo

    Storia di un fantasma e dell’ineluttabile lentezza del tempo

    C’è una lunga scena in Storia di un fantasma, una inquadratura fissa di quasi cinque minuti senza stacchi, in cui una ragazza disperata mangia un dolce sotto l’impotente sguardo del fantasma del fidanzato appena deceduto; è una scena straziante, quasi insostenibile per lo spettatore: l’immagine dilatata di un lutto a cui siamo costretti ad assistere, insieme al fantasma del protagonista, senza poter intervenire.

    Nonostante il titolo, non si tratta di un film horror. Come il racconto di Virginia Woolf citato nei titoli di apertura, Storia di un fantasma è una storia d’amore, la delicata cronaca di un amore terminato e reso impossibile dalla morte del protagonista, che torna come uno spettro condannato a restare per sempre nel luogo in cui viveva e a osservare impotente lo scorrere degli eventi, in attesa di qualcosa che ancora non conosce.

    Il film parla del tempo che scorre, del suo ritorno ciclico; con il suo ritmo lento, dilatato fino a rasentare l’immobilità, comunica l’eternità di ogni attimo; l’infinita attesa diviene l’espressione di un amore che non finisce con la morte, rende concreto l’affetto di qualcuno che non può più comunicare ma che resta vicino alla sua amata e resterà ad aspettarla anche quando lei se ne sarà andata per lasciarsi il dolore alle spalle.

    L’iconografia del fantasma è ironica nel suo essere archetipo: nessun effetto speciale visibile, solo un lenzuolo da Halloween con neri buchi per gli occhi, metafora della visione come unica possibilità. Il fantasma non ha volto o espressività, la sua identità è affidata al nostro ricordo; non può parlare, e il film ne esce quasi muto per buona parte, può intervenire nel mondo solo con le azioni canoniche da fantasma, come far cadere oggetti o accendere e spegnere lampadine. I dialoghi sono affidati ai casuali ospiti della casa, come il lungo monologo nichilista sul senso della vita in un universo destinato a scomparire pronunciato dal partecipante a una festa.

    Il regista David Lowery costringe l’immagine in un 4:3 con i bordi arrotondati, che comunica la limitazione dello spazio accessibile e al tempo stesso uno sguardo intimo, come se si stessero guardando vecchie foto di famiglia. Il fantasma osserva ed è osservato; arriva anche, in un paradosso temporale, a contemplare se stesso vivo e nuovamente (o eternamente?) fantasma, in un susseguirsi ciclico e apparentemente senza via d’uscita, fino alla comprensione e accettazione del suo destino.

  • A Quiet Place, il coinvolgente suono del silenzio

    A Quiet Place, il coinvolgente suono del silenzio

    Assistere alla proiezione di A Quiet Place in un cinema affollato è un’esperienza strana e coinvolgente. Il silenzio è pressoché totale, rotto solo dai più indomiti sgranocchiatori di popcorn, mai così fastidiosi. In un mondo di cinema reso sempre più avvolgente anche grazie al 3D, John Krasinski sceglie di immergere gli spettatori nel suo film non aggiungendo dimensioni ma togliendole.

    Nel futuro post apocalittico di A Quiet Place la Terra è stata invasa da una nuova razza, presumibilmente di origine extraterrestre e decisamente ostile. Non c’è modo di combattere gli invasori; i pochi umani sopravvissuti hanno un’unica possibilità: restare in silenzio per non essere individuati dagli alieni, che appaiono ciechi ma dotati di un udito finissimo.

    Anziché attraverso i soliti combattimenti militari da “guerra dei mondi”, Krasinski ci mostra l’invasione dal punto di vista di una famiglia che si è rifugiata in campagna, in solitudine, vivendo in una casa circondata da boschi, comunicando quasi esclusivamente con la lingua dei segni, abilità che il gruppo ha sviluppato avendo una figlia sordomuta, e naturalmente evitando in tutti i modi di fare il benché minimo rumore.

    A Quiet Place

    In questa specie di versione distopica di Walden non sembra esserci un possibile futuro: la morte è la conseguenza quasi garantita di ogni minimo sbaglio; un urlo disperato corrisponde a un suicidio; persino la speranza data da una nuova nascita diviene fonte di terrore, per l’impossibilità di nascondere i vagiti del neonato, e contribuisce alla costante tensione che corre per tutta la durata del film.

    Ma è appunto grazie al silenzio obbligato dei protagonisti che A Quiet Place rompe la quarta parete; le raccomandazioni del padre ai suoi familiari diventano ordini per il pubblico: “Se vuoi vivere non fare alcun suono”. Lo spettatore viene coinvolto nello spietato gioco del silenzio (a cominciare da #StayQuiet, hashtag usato per il lancio del film); la cura che mettono i protagonisti in ogni singolo movimento diventa quella dell’intera sala, contribuendo all’empatia verso la famigliola di superstiti, vero oggetto del racconto, e all’attenzione per ogni più piccolo gesto e per ogni minimo cambio di espressione degli attori.

    A Quiet Place

    La riflessione sul cinema di A Quiet Place si pone a sua volta nel campo del confronto tra suono e silenzio. Quando negli anni ’20 venne introdotto il sonoro, alcuni “puristi” storsero il naso: il cinema muto era il luogo della riflessione, della poesia; ai loro orecchi le nuove pellicole sonore sembravano volgari al confronto. Charlie Chaplin al suo primo film non muto, Tempi moderni, mantenne nel mutismo quasi assoluto il suo amato Charlot, introducendo effetti sonori e alcune battute parlate ma non dialoghi completi.

    A Quiet Place

    Intendiamoci, A Quiet Place è tutt’altro che un film muto: i jump scare tipici del filone horror si sprecano, rischiando anche a tratti di banalizzare l’attento lavoro che caratterizza una sceneggiatura altrimenti perfetta, assieme alle citazioni cinematografiche (Hitchcock e Spielberg soprattutto). Ma Krasinski ci pone di fronte a un’opera in cui il silenzio è una necessità (nascondersi dagli alieni) o una condizione (la figlia sordomuta), immergendoci nei due diversi mondi: il primo quello in cui il suono è presente ma è uno spazio non occupabile, pena la morte, il secondo quello in cui il suono è del tutto assente e manca a livello di dimensione. Curiosamente è proprio la dimensione mancante che nasconde la possibilità del cambiamento. Come nella storia, il “posto tranquillo” diviene un antidoto e un rifugio contro l’invasione onnipresente di esplosioni ed effetti del cinema d’azione e di fantascienza di questi tempi.

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