Categoria: Cinema

  • The Shape of Water: una forma del cinema liquido

    The Shape of Water: una forma del cinema liquido

    L’elemento liquido ricorre più volte nella filmografia di Guillermo Del Toro: in La spina del diavolo un serbatoio d’acqua è il luogo dell’orrore e dei fantasmi, in Pacific Rim l’oceano è il punto di ingresso sul nostro pianeta dei mostruosi kaiju; liquido è anche il terreno “insanguinato” su cui poggia e in cui inesorabilmente sprofonda la casa maledetta di Crimson Peak.

    Fin dal titolo, The Shape of Water gioca con la caratteristica dell’acqua di non avere una forma propria ma di assumere quella del contenitore. L’acqua diventa di volta in volta prigione, rifugio e salvezza, elemento che dona la vita e che la toglie, nascondiglio o indizio rivelatore.

    The Shape of Water

     

    L’acqua è il luogo in cui si realizzano i sogni, il luogo in cui, come nell’Atalante di Jean Vigo, si può incontrare la persona amata. L’acqua è l’amore, unica costante universale come in Interstellar di Christopher Nolan, ma è anche il cinema stesso, con le sue infinite forme di incarnazione dei sogni.

    The Shape of Water nasce anche dalla crisi del cinema: i suoi protagonisti guardano vecchi film in tv e sembrano a loro volta usciti dalla memoria cinematografica, a partire dalla creatura della Laguna Nera. Sono figli di un dio minore, marginali ed emarginati, che abitano sopra una sala cinematografica, in cui non va quasi più nessuno, e che ritrovano un ruolo centrale grazie alla forma di un cinema liquido. Se da una parte la protagonista muta usa quasi naturalmente un modo di comunicare con il “mostro” che nessun “normale” immagina, dall’altra ritrova la parola sognando di cantare in un immaginario musical in bianco e nero. Elisa arriva a immergersi (nell’acqua, nella storia, nel cinema) per trovare compimento al suo amore. A sua volta, la creatura in fuga trova riparo nel cinema dove sgocciola anche l’acqua che la mantiene in vita.

    L’acqua pervade anche la fotografia del film, che inizia e termina in una tonalità verde scura, dove il liquido prende il posto dell’aria e diviene magicamente respirabile, passando da luogo di sogno a luogo di vita; è un film quasi completamente notturno, una notte liquida che nasconde sogni e incubi, anime buone e spietati assassini.

    The Shape of Water

    Anche l’epoca in cui è collocato The Shape of Water è quanto mai liquida, con un mondo, quello dei primi anni ’60, che può nascondere meravigliose possibilità ma anche la sua improvvisa distruzione. Il misterioso laboratorio teatro dell’azione della prima parte del film cela lo studio di armi in piena Guerra fredda e il serbatoio/piscina un cui viene segregato il dio/mostro di cui si innamora la protagonista.

    Il film stesso si nutre di film, con innumerevoli citazioni, un cinema liquido che assume di volta in volta la forma di altro cinema, proponendo ruoli e situazioni, rovesciandoli, ri-formandoli. Il citazionismo sfrenato dei nostri tempi diviene l’acqua in cui ci appaiono da sempre i nostri sogni scaturiti da favole cinematografiche. L’unico modo di riappropriarci di quei sogni è andare al cinema, dove Del Toro ci aspetta per dare nuove forme alla liquidità di un cinema ancora potenzialmente infinito.

  • Blade Runner 2049: la solitudine del futuro

    Blade Runner 2049: la solitudine del futuro

    Il 2049 di Blade Runner non è un nostro futuro ma un futuro alternativo, sganciato dalla nostra linea temporale (perché il 2019 di Blade Runner è a sua volta diventato con il tempo un nostro presente alternativo), un futuro in cui ancora sopravvivono Atari e Pan Am, in cui la tecnologia ha virato verso un’altra direzione; non ci sono onnipresenti cellulari e gli incontri non si svolgono in mondi virtuali, come se il cinema volesse cancellare una tecnologia che con la sua sola esistenza rende difficili o, peggio, scontate nuove narrazioni.

    Blade Runner 2049

    E’ un futuro quindi in qualche modo retrò, popolato da personaggi (naturali o artificiali) prevalentemente soli, anche nelle inquadrature, che si muovono in un mondo morente, non sopravvissuti ma residui di umanità, sovrastati da architetture gigantesche che hanno perso la loro funzione originaria.

    Il design si svuota: dove Ridley Scott mostrava ambienti affollati di persone e oggetti, Denis Villeneuve evita un production design ormai inflazionato (Il quinto elemento, la seconda trilogia di Star Wars) e predilige, come in Arrival, scenografie immense e quasi deserte, dove, come su un palcoscenico minimale, sono presenti solo gli arredi e gli accessori che servono all’azione. Certo 2049 ripropone la Los Angeles/Metropolis dell’originale ma vira verso altri modelli: le strutture di A.I. di Spielberg, le gigantesche figure femminili di Fellini della Città delle donne e delle Tentazioni del dottor Antonio, gli ambienti industriali disumanizzati del Deserto rosso di Antonioni, i contenitori di cloni del quarto Alien di Jeunet. Anche l’azione si riduce al minimo indispensabile: controcorrente rispetto al dilagare degli “sparatutto” cinematografici, 2049 è un film composto soprattutto da dialoghi e silenzi. I tempi si dilatano fino al limite della resistenza dello spettatore, quasi a voler rimarcare una distanza “artistica” dalla produzione attuale e a cercare un pubblico che sia davvero motivato ad assistere e che non cerchi il semplice intrattenimento.

    La periferia mostra una discarica che ricorda la Terra di WALL-E ma dove non si trovano simpatici robot che impacchettano rifiuti, bensì bambini che recuperano, restaurano e riciclano, bambini che riflettono quelli che vivono alle periferie del nostro mondo.

    Blade Runner 2049

    La differenza tra umano e artificiale si sposta a un altro livello: i replicanti sono umani ma non possono né partorire né essere partoriti. L’ultima barriera è quindi la possibilità di diventare e perpetuare una specie: “essere partorito significa avere un’anima”. La nascita diventa una certezza inconfutabile di distinzione, al di là di tutti i possibili test Voight-Kampff. Parallelamente, il timore per il robot macchina di von Neumann diventa la paura dell’avvento di una nuova stirpe in grado non tanto di autoreplicarsi quanto di riprodursi; la sostituzione del singolo si estende a livello di specie.

    Il “cacciatore di androidi” K non sogna pecore elettriche ma ha in casa una intelligenza artificiale sotto forma di ologramma “vivente”, macchina che desidera (o deve?) essergli vera compagna, arrivando a reclutare un corpo di prostituta da rivestire con se stessa per colmare la lacuna della sua fisicità. Ma la macchina autocosciente è intelligenza sterile. Il sogno è essere vivi e K lo realizza in modo parallelo a quello di Roy Batty, cercando non “più vita” per se stesso ma “la vita” di chiunque. Al di là della guerra tra specie che sembra profilarsi nell’universo di Blade Runner, diventa ininfluente se siamo o no replicanti ma che cosa siamo in grado di fare.

    Blade Runner 2049

    La colonna sonora riecheggia il senso di solitudine, con isolate percussioni, mai così imperiose e assolute, e un wall of sound di sintetizzatori che riempie gli spazi sonori svuotati di dialoghi e rumori. Emergono ricordi di Vangelis del primo film, fantasmi frammentati di Elvis Presley e Frank Sinatra da un’altra epoca, ridotti in visione a ologrammi guasti.

    Citazioni e simboli sono ovunque, da Nabokov alle api, fino al creatore cieco che non riesce a essere compiutamente un dio. Se Blade Runner 2049 non è il film perfetto (ma quali grandi opere lo sono?), ha tuttavia il coraggio e la capacità di trovare nuovi orizzonti e modi di espressione, entrando nella nicchia della fantascienza che non si ferma al racconto ma esplora ed espande i nostri dubbi e inquietudini.

  • Paterson, una vita perfettamente normale

    Paterson, una vita perfettamente normale

    Paterson è un tranquillo autista di autobus in una tranquilla cittadina del New Jersey che porta il suo stesso nome. Tutti i giorni, tranne la domenica, Paterson fa colazione, guida il suo bus lungo il suo regolare percorso, porta a spasso il cane, beve una birra al pub vicino a casa. Pensa e scrive poesie ispirate alle situazioni che trova, alle persone che incontra, agli oggetti che gli capitano davanti. Ogni giorno la moglie trasforma la casa in un estroso ma ordinato bianco e nero, dipingendo tende, scegliendo arredi, persino cucinando dolci.

    Paterson

    Insomma la vita di Paterson non ha alcunché che non va: è perfettamente normale; la sua struttura è tranquillamente circolare, richiamata costantemente persino dalla forma degli oggetti che il protagonista si trova davanti (una tazza, un bicchiere di birra); se qualcosa interviene a spezzare il ripetersi degli eventi, qualcos’altro lo fa ricominciare. Ma non si tratta di una maledizione a ripetere sempre lo stesso giorno: Paterson cresce, conosce, impara; la circolarità è in realtà un progredire minimalista, fatto di piccoli particolari che portano il protagonista a essere quello che è ogni giorno, così come la storia della città di Paterson è costellata di piccoli eventi assolutamente non traumatici ma importanti che l’hanno resa unica, come il soggiorno di Colt, la nascita di Lou Costello, la partenza dell’anarchico Bresci.

    La ripetizione continua si riflette anche sugli abitanti, persino sui gemelli che l’autista incontra ogni giorno; in qualche modo anche lui è un doppio: si chiama come la città dove vive. ha una specie di gemello, sotto forma di turista giapponese, che incontra un giorno per caso e che gli fa comprendere l’importanza della vita; inoltre, curiosamente, l’attore che lo interpreta si chiama come la sua professione (Driver).

    Paterson

    Con Paterson Jim Jarmush ha confezionato un elogio della normalità, della vita in cui niente di prodigioso accade ma solo uno fluire di tanti piccoli eventi; come scirve lo stesso regista, il film è “un antidoto ai film cupi, d’azione o eccessivamente drammatici”. Jarmush ci invita a far caso ai piccoli particolari, come le diverse ore a cui si sveglia il protagonista, segnalandoli ripetutamente alla nostra attenzione come se dovessimo dar loro un significato nella trama, mentre sono proprio questi particolari a dare un significato al film come alla nostra esistenza.

  • Perché ci piacciono i film catastrofici?

    Perché ci piacciono i film catastrofici?

    La catastrofe è una di quelle forme universali inconsce che Jung indica come archetipi dell’immaginario collettivo, una presenza costante fin dai miti sull’origine del mondo. Nulla di sorprendente quindi se alla rappresentazione della catastrofe sono legate molte forme d’arte e naturalmente i media spettacolari come cinema e televisione.

    Deep Impact

    Ma che cosa ci spinge a guardare un film catastrofico? Che cosa cerchiamo in uno spettacolo in cui persone come noi, per cui dovremmo provare empatia e compassione, sono esposte a tremendi pericoli, perdono la vita in modi più o meno orribili in incendi, terremoti, impatti con meteoriti, esplosioni nucleari?

    Catarsi

    Independence Day

    Esorcizziamo le nostre paure verso fenomeni al di là del nostro controllo che hanno una anche remota ma pur sempre esistente probabilità di verificarsi. Non solo: abbiamo la sensazione di viverli davvero e di uscirne illesi. Nei film apocalittici la distruzione mostrata è talmente eccessiva da poter essere tranquillamente ignorata come pericolo effettivo e apprezzata come puro spettacolo, tendenza sempre più in voga nella nuova ondata digitale del filone, da Twister a 2012. Se una nave che affonda è una possibilità remota del reale, un mondo distrutto da un attacco alieno ci sembra più accettabile di quello poco rassicurante che emerge nei telegiornali nei momenti di crisi internazionali. Inoltre, guardare la sofferenza e la morte di personaggi dello schermo per cui proviamo una breve ed evanescente empatia ci rende in qualche modo più sopportabile la coscienza della fine, nostra o altrui.

    Vedere l’impossibile

    The Day After Tomorrow

    Se il cinema è divertire, divergere dal quotidiano per esplorare le possibilità della visione impossibile, fa parte del divertimento la contemplazione della catastrofe: un film ci rende visibili, condensandoli in pochi minuti, cambiamenti geologici o climatici, di cui veniamo informati dalla scienza, reali ma non percepibili e comunque distanti, che avvengono in milioni di anni, definitivamente al di fuori della nostra portata temporale. Contemporaneamente, possiamo assistere da un luogo sicuro, la nostra poltrona, a fenomeni letali e terrificanti in modo dettagliato e iperrealista. Possiamo in definitiva cavalcare il tempo, guardare in faccia la morte, contemplarla e sopravvivere senza correre in realtà alcun rischio.

    Didattica

    The Day After

    Alcuni film catastrofici sono percorsi di iniziazione e sembrano riservare saggi consigli per la sopravvivenza: ci aspettiamo insomma di ricavare un insegnamento o ci illudiamo della sua utilità, per esempio che comportamento adottare in un palazzo in fiamme, durante un naufragio o un fallout nucleare, e al tempo stesso immaginare come ragiremmo in una situazione estrema. Un taglio docufiction, benché più inquietante, rincuora la nostra voglia di catastrofe attribuendola alla necessità di apprendere. Al film è delegata in parte l’antica tradizione orale che comprendeva la narrazione di terribili prodigi, immani distruzioni, castighi divini ma anche la scuola di sopravvivenza ai pericoli quotidiani..

    Spettacolo

    Jurassic Park

    Dall’Inferno di cristallo a Jurassic Park, passando per svariati Godzilla, i film catastrofici sono il luogo prediletto per la sperimentazione degli effetti speciali. Una spinta ad andare al cinema è ammirare lo stato dell’arte di trucchi che non sono limitati al confine irreale della fantascienza ma si calano nel mondo reale; vedere la distruzione un luogo familiare ci colpisce molto di più di quella di un pianeta di fantasia. Il pubblico desidera effetti sempre migliori e sempre più disastrosi, che surclassino ogni volta i precedenti: l’esagerazione della spettacolarità diventa spesso l’unico scopo, prevaricando su trama, recitazione ed eventuali messaggi.

    Sadomasochismo

    L'inferno di cristallo

    Proviamo paura e piacere nel vedere la sofferenza altrui? Se sì, un film catastrofico soddisfa la nostra componente sadomasochistica. Possiamo soffrire insieme ai nostri eroi, gioire per la scomparsa dei cattivi di turno, spesso travolti da un disastro da loro stessi provocato, immaginando di provare le loro stesse sensazioni di pericolo, angoscia e terrore. In questo senso funzionano meglio film basati su eventi fittizi che non quelli che ricostruiscono reali accadimenti storici, perché i primi non inducono il senso di rimorso che rischiamo di provare con i secondi.

    La catastrofe parla al corpo

    L'avventura del Poseidon

    Il nostro corpo reagisce, con aumento del battito cardiaco e rilascio di adrenalina, ai momenti di tensione, anche se simulata. Il film con effetti speciali da pugno nello stomaco viene visto fisicamente prima ancora che meditato e rielaborato. In qualche modo quindi il nostro corpo utilizza lo spettacolo per allenarsi alla reazione.

    Millenarismo di comodo

    The Walking Dead

    La catastrofe risolve i problemi della vita quotidiana: ci permette di ignorarli (di-verte) ma anche di pensare che sarebbero completamente superati in un mondo post catastrofico che, benché peggiore, ci metterebbe a disposizione un diverso grado di libertà. Nel film apocalittico vengono spesso soppressi o sovvertiti convenzioni sociali, norme e doveri: le circostanze eccezionali, la necessità della sopravvivenza e la distruzione dell’ordine costituito ci autorizzano al furto, all’uso delle armi, alla difesa estrema e primitiva.

  • Star Wars VII – Il non risveglio della Forza

    Star Wars VII Il risveglio della Forza

    (ATTENZIONE: QUALCHE SPOILER)

    Harrison Ford scende dal Millennium Falcon e incontra Carrie Fisher.
    “Anche tu qui?” chiede lei, “Che cosa ci fai?”
    “Be’, è bello rivederti,” risponde lui, “sto cercando di fare quello che posso per salvare questo film”.
    “Capisco”, ribatte lei, “Non saresti dovuto tornare. Nemmeno io, del resto”.
    “Lo so,” conclude lui, “ho un gran brutto presentimento”.

    Accontentatevi del trailer: le emozioni sono già tutte lì. Il problema principale di Star Wars VII non è tanto quello di non essere all’altezza come seguito della trilogia conclusa con Il ritorno dello Jedi, quanto di non essere nemmeno un buon film in sé.

    Intendiamoci, il film non narcotizza, che per le sue due ore di situazioni ripetitive è un risultato discreto, ma è appunto ripetitivo; non lo è tanto perché ripropone situazioni della trilogia originale quanto perché ripropone più volte le sue stesse situazioni, privandole dell’aura che potrebbe eventualmente derivare dalla loro unicità.

    Gli scontri X-Wing vs TIE Fighter, una volta riservati per l’inizio o la fine, vengono qui replicati più volte e stancano, nonostante la loro ricchezza visiva. La terza pseudo Morte Nera viene distrutta sempre nello stesso modo: almeno nel film precedente bisognava penare un pochino per disattivare uno scudo protettivo, qui basta prendere in ostaggio il primo pirla che passa, anzi, la prima pirla (dimenticavo l’importanza dell’elemento femminile) e dirle di spegnere tutto prima di buttarla nel tritarifiuti e minare il posto.

    Star Wars VII Il risveglio della Forza

    Il supercattivo Kylo Ren è poco più di un cosplayer di Darth Vader di cui conserva il casco come un fan. Se suo nonno fosse ancora in giro gli direbbe che è maldestro oltre che stupido e lo soffocherebbe insieme a buona parte dei veteroimperiali che popolano la galassia lontana lontana. Kylo si svela troppo presto, togliendosi la maschera, e non contento se la toglie due volte, togliendo al contempo se possibile ancor più sacralità al disvelamento, considerato poi che non c’è molto da svelare oltre al volto di Adam Driver. Il personaggio non si sviluppa e quando le rivelazioni che lo riguardano arrivano è troppo presto e lasciano indifferenti.

    Che cosa rimane da salvare? Gli stormtrooper, mostrati nella loro cattiveria ma anche nella loro umanità. Il droide BB-8, fin troppo ammiccante. Poi vertiginose sequenze di azione e qualche dialogo divertente, anche se l’unica battuta azzeccata è quel “Chewbe, siamo a casa” pronunciato già nel trailer da Harrison Ford. Proprio il vecchio Han Solo e il suo amico peloso sono forse l’unica cosa veramente buona del film, anche se loro stessi sembrano esserne fin troppo consapevoli, tanto da dialogare direttamente con il pubblico più che con gli altri personaggi sullo schermo.

  • L’arrivo di un treno: da La Ciotat a Pordenone

    L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat

    Sono passati centoventi anni esatti da quando i fratelli Lumière hanno ripreso L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (1895). Il breve film (meno di un minuto) è uno dei più famosi della storia del cinema, non il primo ma comunque un simbolo, e mostra appunto un treno che arriva a una stazione.

    Questa mattina mi giunge sul telefono l’avviso di una trasmissione via Periscope dalla stazione di Pordenone.

    Alberto Farina Periscope

    Con un’angolazione dell’inquadratura per un attimo molto simile a quella usata dai fratelli Lumière, Alberto Farina sta facendo uno dei suoi quotidiani interventi in cui illustra il palinsesto della giornata del canale Rai Movie. Ed ecco arrivare anche qui un treno, che Farina prenderà e da dove continuerà il suo discorso.

    Certo il secondo evento non è epocale quanto il primo ma è rappresentativo di una mutazione. In un certo senso la trasmissione di Farina chiude il ciclo aperto dai Lumière: la riproduzione realizzata con mezzi al tempo prodigiosi è divenuta quotidianità, coinvolgimento im/mediato che mette sullo stesso piano autore e spettatore.

    Periscope non è la prima Internet tv personale ma è comunque un simbolo della omawqatsi(1) dei nostri tempi; è l’ennesimo e forse più potente invito a “farci media”, a creare un palinsesto televisivo della nostra vita, a trasportare noi stessi nello spazio sociale dell’immagine trasformandoci in merce spettacolare, a metterci in mostra in una interazione con il potenziale pubblico mondiale; parafrasando quel misto di McLuhan e Debord che è il professor O’Blivion di Videodrome, è il nostro ultimo “divenire tv”, diventare parte della videoallucinazione che fa convergere i media elettrici.

    Una famiglia giapponese guarda la diretta tv dello sbarco sulla Luna della missione Apollo 11.

    Lo sbarco sulla Luna della missione Apollo 11 (un altro “arrivo del treno”) è stato l’evento rappresentativo dell’unione mondiale (o quasi) in una diretta televisiva: è stata la cronaca spettacolare davanti a cui buona parte del mondo si è fermata e si è sentita unita, condividendo allo stesso istante un momento di storia. Periscope unisce il mondo come potenziale continuo spettatore di se stesso. Se le pietre mliari condivise sono un retaggio del passato e ognuno nella moltitudine interconnessa può crearsi le proprie, la diretta Internet/tv di questa mattina è stata per me la chiusura simbolica ma definitiva della vecchia Internet e della vecchia tv,

    (1) omawqatsi è una espressione che ho inventato ora traducendo “vita nella nuvola” nella lingua Hopi, ispirandomi ai titoli della trilogia Qatsi di Godfrey Reggio. Se imparerò anche a pronunciarla la userò.

  • A qualcuno piace caldo, ovvero la falsità secondo Billy Wilder

    A qualcuno piace caldo

    Billy Wilder è un regista del falso: la doppiezza e l’inganno sono gli ingredienti base di buona parte dei suoi film, da Viale del tramonto a Buddy Buddy; l’equivoco non nasce quasi mai casualmente ma è una scelta deliberata, la necessità di nascondersi, una deliberata volontà di ingannare o di mettere in scena qualcosa che in realtà non è. Wilder fa cinema sul cinema anche in questo senso, mostrando la costruzione del falso.

    In Viale del tramonto la diva decaduta vive in un eterno autoinganno, aiutata dal maggiordomo, un inganno che costituisce l’ambiente ideale per lo sceneggiatore in cerca di un nascondiglio perché perseguitato dai creditori. I protagonisti di Testimone d’accusa e L’appartamento vivono, da vittime o da creatori, una falsa realtà. Il flic di Irma La Dolce inventa un suo doppio e nella sua doppia veste mente due volte alla sua protetta e amata. In Buddy Buddy il killer vede il suo mimetismo messo a rischio dal vicino di stanza in crisi, che vive di troppa sincerità.

    A qualcuno piace caldo

    Ma è in A qualcuno piace caldo che l’intera trama dipende da un gioco continuo di scambi di menzogne. Personaggi e oggetti racchiudono una storia diversa da quella che vogliono raccontare.

    Il carro funebre è in realtà un trasporto di alcolici abusivi, nascosti nella bara; lo speakeasy è mimetizzato da funerale. Il delitto iniziale (ispirato alla strage di San Valentino), dai toni in apparenza eccessivi e troppo efferati per una commedia, spinge i due protagonisti a rinnegare il loro essere uomini e a diventare dei travestiti, mutazione derivata non da un orientamento sessuale ma dall’istinto di sopravvivenza.

    A qualcuno piace caldo

    Paradossalmente, ogni qual volta ai due protagonisti si offre un’occasione per uscire dall’inganno, ecco il verificarsi di un nuovo evento che li costringe a reindossare il loro falso ruolo o ad assumerne un altro altrettanto falso. Ma mentre Joe/Josephine/Junior entra ed esce da molteplici vite e molteplici inganni, ora per sfuggire ai criminali, ora per sedurre Zucchero, riuscendo a pentirsi della sua insensibilità e quindi a ritrovare la sua vera identità, Jerry/Daphne rimane ingenuo prigioniero del suo cammuffamento femminile, fino a divenirne vittima egli stesso e a consegnarsi a un ignoto destino nel surreale finale del film.

  • Mad Max: Fury Road – La strada furiosa di George Miller

    Mad Max: Fury Road

    Valeva la pena aspettare trent’anni per un nuovo capitolo della saga di Mad Max: dopo una lunga pausa in cui ha girato tra gli altri Le streghe di Eastwick e Happy FeetGeorge Miller ha confezionato uno dei film più belli di questi tempi.

    Mad Max: Fury Road non è un sequel o un reboot (numerosi sono gli elementi che fanno pensare a entrambe le ipotesi, tra cui il controverso destino della V8 Interceptor) ma un episodio che si colloca temporalmente al livello del secondo capitolo, Il guerriero della strada. Unico personaggio in comune è il protagonista, incarnato però da un nuovo attore, Tom Hardy, che ha preso il posto dell’ormai “anzianotto” Mel Gibson.

    Mad Max: Fury Road

    Fury Road è esattamente così come si presenta nei suoi trailer: un unico, lungo, vertiginoso inseguimento on the road che lascia pochi istanti liberi a personaggi e spettatori per riprendere il fiato. È un assalto dilatato per due ore, due ore in cui il ritmo spinge sempre come i tamburi di guerra al seguito del cattivo di turno Immortan Joe. È un film furioso come la sua protagonista, ansioso di farci dimenticare vent’anni di computer graphics, pur presente in abbondanza, con le sue performance fisiche e reali già sul set (alcuni stunt sono stati ideati insieme agli acrobati del Cirque du Soleil).

    Mad Max: Fury Road

    Se la cultura ludica di questi anni lo filtra come un videogame, Fury Road è in realtà solidamente ancorato a un secolo di tradizione cinematografica, al modello rettilineo dell’eterno inseguimento: vi si riconoscono le calibrate gag del Generale di Keaton, la diligenza di Ombre rosse di Ford, i camion nel deserto di Convoy di Peckinpah, il tir impazzito di Duel di Spielberg. Da Spielberg sembra arrivare anche il nuovo Max, che ricorda l’Indiana Jones dell’Ultima crociata, personaggio eternamente ricondotto suo malgrado al ruolo iconico che la sua fama gli ha procurato, come pure i cavalieri pallidi o senza nome di Clint Eastwood., disillusi ma disposti ad aiutare una piccola comunità a difendersi dall’ingiustizia e destinati a riprendere un vagabondaggio solitario una volta compiute le loro missioni di soccorso.

    Mad Max: Fury Road

    Velocità e montaggio divengono da caratteristiche tipiche del cinema a oggetto del film, che da mezzo si fa messaggio; i fotogrammi da soli, privati del movimento, non riescono a raccontare la storia o dare vagamente l’idea dell’essenza puramente cinetica ed esperienziale dell’opera. Le inquadrature sono quasi sempre centrali sui soggetti dell’azione, il che consente un montaggio rapido mantenendo una lettura semplice e immediata: l’occhio ne rimane catturato, fisso sul bombardamento di immagini. I quasi unici colori sono l’azzurro intenso del cielo e il giallo accecante del deserto, alternati al blu profondo di un meraviglioso effetto notte, colori che rimangono impressi e sono parte integrante e identificativa della linea estetica del film.

    Mad Max: Fury Road

    La colonna sonora di Junkie XL sfonda la barriera diegetica ed entra in scena, con percussionisti taiko su ruote gettati all’inseguimento insieme a un chitarrista (l’australiano iOTA) dagli ossessivi riff che paiono usciti dai Nine Inch Nails. Dal Requiem di Verdi al metallico industrial, tutto confluisce in un wall of sound compatto che accompagna ininterrottamente l’azione di un film reso quasi muto dalla riduzione all’osso dei dialoghi, riduzione che trasforma in citazione da cult movie ogni singola battuta.

    Mad Max: Fury Road

    Paura e desiderio lasciano il posto a follia e istinto: nessuno qui dimostra incertezze; tutto si affronta senza temere le conseguenze, perché non c’è scelta o perché la strada della furia richiede l’arma della assoluta libertà che può coincidere solo con la pazzia. Nel mondo della pura sopravvivenza la violenza è la normalità: nessuna pietà, nessun compromesso, nessuna esitazione.

    Mad Max: Fury Road

    Ballardiano fino al midollo, Fury Road canta il mondo desertificato dall’apocalisse nucleare e l’immortale mito occidentale dell’automobile; dall’auto non si scende quasi mai e tutto avviene in corsa: dialoghi, convenevoli, medicazioni delle ferite e riparazioni ai motori. Ogni pezzo di ricambio è già stato usato e riciclato innumerevoli volte fino all’estrema consunzione; i veicoli hanno perso la loro forma originale, si scompongono e si sommano come i relitti di uno sfasciacarrozze, ammucchiati e schiacciati tra loro. Si vive per la macchina e la macchina è vita, va curata come un organo umano. Le rare soste sono i rifornimenti, con taniche agganciate alle fiancate che contengono indifferentemente benzina, olio, acqua o latte materno.

    Mad Max: Fury Road

    La protagonista femminile interpretata da Charlize Theron è un cyborg, l’avambraccio perso in chissà quali sofferenze: rapita da giovane alla sua comunità, Furiosa rivendica la sua parità o addirittura il predominio grazie alla conoscenza della tecnologia, il motore, suprema e ultima espressione della civiltà di un’epoca ormai dimenticata e di cui sopravvivono solo macchine residuali e archeologiche. Al femminile è demandato il futuro, di cui Furiosa e le altre donne si fanno custodi: la conservazione della vita, filiale o sotto forma di semi della madre terra. Anche gli uomini si rendono conto del loro valore, riducendole in schiavitù; ma “noi non siamo cose” dicono le Madri, rivendicando il loro diritto al libero arbitrio e demolendo definitivamente una società patriarcale.

    Mad Max: Fury Road

    Come nei due film precedenti, Mad Max: Fury Road celebra l’apoteosi delle subculture, in un mondo in cui quello che rimane della popolazione si è frammentato in piccole comunità, ognuna con la sue gerarchie, storie e credenze, garantendo con la sua sostanziale anomìa una sorta di libera anarchia dei valori anche per il singolo. L’universo descritto racchiude una complessità ben più ampia di quella che compare in scena, sottintendendo la presenza di numerosi gruppi dispersi nei deserti postatomici, probabili ambientazioni di una nuova, folle trilogia di Miller che la fine di questo film fa desiderare come una droga.

  • Videodrome, il ciberspazio metaforico di David Cronenberg

    Videodrome

    È senza dubbio bizzarro che Videodrome di David Cronenberg risulti catalogato nelle filmografie cyberpunk; bizzarro perché, almeno in apparenza, la pellicola non affronta i temi tipici del genere. In realtà Cronenberg, con questo viaggio nell’uomo medializzato, esplora quelli che sono a tutti gli effetti gli orizzonti visionari del movimento Cyberpunk.

    Non ci sono reti informatiche da esplorare alla caccia di dati: Videodrome è calato nel suo presente (i primi anni ’80) in cui la Rete è solo un embrione telematico accessibile a pochi (Cronenberg se ne occuperà molto più in là, con il metaverso ludico di eXistenZ). L’infospazio è quello analogico della televisione: ad avviare l’allucinato viaggio del protagonista Max Renn è sì un hacker ma della programmazione televisiva; dopo tutto, ogni sistema, di qualsiasi natura sia, è un oggetto da esplorare nelle sue componenti nascoste o inaccessibili. E’ così che un giorno l’amico hacker Harlan intercetta una trasmissione satellitare, appunto Videodrome.

    Videodrome

    Se l’interfaccia di accesso è il tubo catodico, il supporto è la videocassetta. Ma il dato inciso sul nastro magnetico è, ancorché analogico, addirittura biologico e apparentemente dotato di vita. Il testamento del professor O’Blivion, predicatore dell’etere, è un lunghissimo videotape che occupa un’intera stanza della Cathode Ray Mission, sorta di istituto di assistenza per indigenti che consente a chi non ne ha la possibilità di guardare la televisione e sentirsi così parte della “grande tavolozza del mondo”. Ma O’Blivion-videotape non è una memoria statica, bensì un essere vivente in grado di dialogare con chi lo guarda, un costrutto postumano che sposta la sede della coscienza in uno spazio mediale.

    Videodrome

    Lo spazio mediale è a sua volta l’arena Videodrome: un luogo definito dalla televisione e da chi lo guarda, estrema “allucinazione consensuale”, per usare la definizione del cyberspace di Gibson, che consente l’incontro tra spettatori e protagonisti del programma, al contempo annullando la distinzione tra attori e pubblico: chi guarda Videodrome ne diventa suo malgrado parte. Non solo: la stessa realtà diviene indistinguibile dall’allucinazione; lo schermo si incurva verso l’esterno e lo spettatore lo penetra fisicamente; nella società dello spettacolo scompare ogni separazione tra scena e platea.

    Videodrome

    Lo strumento per registrare l’esperienza Videodrome ricorda un casco da realtà virtuale: una macchina concepita per far vedere qualcosa all’utente diventa un dispositivo per vedere quello che l’utente sente e prova. Ma l’esperienza porta all’effettiva proiezione su una realtà tutt’altro che virtuale; se il ciberspazio altro non è che una rappresentazione metaforica di dati, la realtà che esso rappresenta viene modificata dall’interazione con quei dati. Se realtà e allucinazione non sono più distinguibili, l’allucinazione assume lo stesso valore (e gli stessi effetti) della realtà.

    Videodrome

    La videocassetta vivente è il supporto delle informazioni che riprogrammano l’uomo-video. Sotto l’influsso del tumore Videodrome, incarnazione biologica del segnale, origine e risultato allo stesso tempo, il fisico si trasforma, diviene contenitore di dati, si fonde con l’arma che diventa a sua volta carne. Il corpo umano, metafora di quello sociale, diviene terreno di scontro e oggetto del desiderio di forze disincarnate, corporazioni, chiese, ognuna tesa alla conquista e all’autoaffermazione. Max Renn passa da addetto ai lavori, proprietario di un canale tv, a inerme oggetto di riprogrammazione per oscuri fini, macchina assassina che uccide indifferentemente, nel sogno o nella realtà, umani e televisori di carne.

    Videodrome

    Il destino di Max è segnato, come quello di tutti i protagonisti dei film di Cronenberg che osano violare i confini dell’imperscrutabile per oltrepassare se stessi: il postumano è distruttivo e la mutazione si rivela sempre, ineluttabilmente, letale.

  • Tetsuo, l’arma umana di Shinya Tsukamoto

    Tetsuo

    (Altro riciclo di vent’anni fa dalla rivista Betarelease)

    Un uomo si addentra di nascosto in una vecchia officina cadente. Cumuli di spazzatura metallica lo circondano. L’uomo prende un tubo zigrinato e se lo spinge a forza dentro una ferita aperta nella gamba. L’uomo urla. La ferita si riempie di vermi che divorano carne e metallo.

    E’ questo l’inizio di Tetsuo, film indipendente a bassissimo costo del regista giapponese Shinya Tsukamoto.

    In Tetsuo e nel suo sequel/remake Tetsuo II: Body Hammer due uomini si trovano ad affrontare l’inesorabile metamorfosi del proprio corpo. Improvvisamente, del metallo comincia a emergere da sotto la pelle; il corpo assorbe in maniera inscindibile altro metallo dall’esterno. I due diventano degli uomini-macchina, capaci di sparare micidiali proiettili dalle braccia e di sfrecciare a velocità incredibili.

    Tetsuo

    Nei due film troviamo molte delle paure della fine di questo millennio: l’oppressione tecnologica, la mutazione genetica, la claustrofobia del monolocale nel grattacielo, la perdita dell’identità individuale. L’ossessionante tecnologia che ci circonda si fonde e si integra con la biologia. La morte dell’uomo macchina è la corrosione e per evitarla non gli resta altro che inglobare sempre nuovo materiale.

    Il cambiamento non è solo fisico ma anche mentale. Piano piano si fa strada il richiamo a una missione da adempiere, o forse la consapevolezza di una volontà: il metallo si assomma ad altro metallo, la carne ad altra carne; e il multi-uomo-macchina finale è pronto a marciare sul mondo per trasformarlo in una massa di acciaio.

    Se il corpo si trasforma, altrettanto fanno i sensi. Lo sguardo, l’udito ma anche la memoria si fanno elettronici e la loro rappresentazione è una vera e propria estetica del disturbo. Così la voce è un cavernoso rimbombo, l’orecchio trasmette schianti metallici al cervello trasformato in circuiti di fil di ferro. Il flashback cinematografico dell’uomo-macchina è un monitor pieno di interferenze, di neve elettronica attraverso cui i ricordi appaiono distorti, accelerati, riavvolti. La memoria è una cassetta inserita in un videoregistratore guasto.

    Tetsuo II

    Entrambi i film sono ricchi di sequenze frenetiche al limite del subliminale: in pochi decimi di secondo vengono condensate decine di situazioni diverse, punti di vista opposti, visioni del corpo dall’interno e dall’esterno. Il disturbo elettronico si traduce nel nostro cervello in un continuo sovraccarico di impulsi che stordiscono e disorientano. I colori sottolineano la mutazione: in Tetsuo, in bianco e nero, la fusione ha i toni dei livelli di grigio. Al contrario, i colori di Tetsuo II distanziano la carne, calda e rossa, dal metallo, freddo e blu.

    Ai due Tetsuo corrispondono due diverse visioni della città. Nel primo film vediamo un insieme di case basse, piccole fabbriche in rovina, cumuli di rifiuti industriali abbandonati: un tessuto urbano post-industriale in decomposizione ma pur sempre originariamente pensato e costruito a misura d’uomo. La metamorfosi del corpo dell’uomo-macchina diventa parte del disfacimento del corpo-città, una struttura costretta a soccombere alla propria entropia: come nell’Europa dopo la pioggia di Max Ernst, architetture ed esseri viventi diventano indistinti e confusi, collassando in una sostanza unica e imprecisata.

    In Tetsuo II la città è gigantesca, asettica, immutabile, perfetta e disumana, corpo alieno tanto alla carne quanto al metallo: grattacieli di cui non si riesce a vedere la fine, rilucenti ipermercati della civiltà dei consumi, metropolitane dove tutto può accadere nell’indifferenza più totale di imperturbabili viaggiatori. Ma tra quei grattacieli Shinya Tsukamoto è nato e cresciuto e, pur trasmettendo una ossessione claustrofobica per la mega-città di cemento, la rappresenta comunque con colori tenui, prevalentemente sfumature azzurre che la immergono in una atmosfera irreale.

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