Categoria: Cinema

  • La catastrofe come malattia: Take Shelter

    Take Shelter

    Se la guerra del Vietnam aveva minato le sicurezze dell’americano medio, l’11 settembre le ha definitivamente fatte crollare. Gli statunitensi si ritrovano impauriti di fronte a un pericolo che hanno sempre considerato remoto e all’impreparazione delle istituzioni ad affrontarlo. Film come La guerra dei mondi o Cloverfield mostrano il punto di vista del cittadino e il suo smarrimento davanti alla catastrofe che colpisce inaspettatamente il suolo patrio. Take Shelter porta ancora più a fondo la riflessione, insinuando il senso del disastro in arrivo nella mente stessa del protagonista.

    Take Shelter

    La famiglia LaForche conduce una vita tranquilla, pur tra i problemi di una nazione in crisi, primo tra tutti quello dell’assistenza sanitaria per la piccola Hannah. Il padre, Curtis, inizia a soffrire di allucinazioni sempre più realistiche e spaventose, dominate dall’approssimarsi di una terribile tempesta. La paura diventa paranoia: Curtis pensa a un rifugio sotterraneo e per costruirlo perde il lavoro. Le visioni peggiorano e la vita dell’uomo diventa una continua ansia, fino a quando, sentendo il fragore della tempesta che si avvicina, costringe l’intera famiglia a entrare nel rifugio indossando maschere antigas.

    La catastrofe nel film di Jeff Nichols assume un ruolo strumentale, quello di rendere visibile l’angoscia e la malattia mentale del protagonista. Insieme a lui perdiamo ogni riferimento, sprofondando nella sua schizofrenia; l’incubo si fa indistinguibile dalla realtà; le visioni di Curtis sono solo allucinazioni o una forma di preveggenza?

    Take Shelter

    Take Shelter è un film su un’America che ha paura, sul bisogno di proteggersi da un pericolo terrificante e misterioso, senza una forma precisa e al tempo stesso dalle molte forme. L’orrore si presenta con immagini surreali ma definite: un gigantesco tornado, uno stormo di uccelli impazziti che ricordano quelli di Hitchcock, una pioggia sporca e oleosa che sa di inquinamento ambientale e di fall-out radioattivo. Come Tom Cruise nel War of the Worlds di Spielberg, Michael Shannon interpreta un padre spaventato che cerca disperatamente di mettere al sicuro la sua famiglia da una minaccia inspiegabile ma che si avvicina sempre più.

    Un finale aperto fa crollare le ultime certezze dello spettatore: Curtis è un folle? La sua follia ha contagiato i suoi cari o può essere finalmente compresa e affrontata dalla famiglia unita? Oppure la sua visione è reale e sta per travolgere tutti noi che l’abbiamo condivisa?

  • Il fantasma della democrazia

    Zombi

    Tra i vari motivi del successo nell’immaginario, non solo cinematografico, della figura del morto vivente c’è senza dubbio il suo essere, più o meno intenzionalmente, allegoria della massa, metafora evidente e accessibile in molti film. Il perturbante scaturisce dallo straniamento di una società che ci appare in qualche modo familiare (i morti sono nostri conoscenti, sono vestiti come noi, frequentano gli stessi luoghi) ma che viene portata al’estremo in quella che sembra l’unica possibile e definitiva evoluzione.

    I comportamenti degli zombi sono spesso rappresentativi di ciò che questi facevano da vivi, ma ripetuti in eterno e privati dell’obiettivo; se il gesto è una memoria della vita passata, la sua perpetuazione insensata diventa un’agghiacciante denuncia dell’inutilità già insita nell’originale, di qualcosa che era stato indotto ma che aveva puro senso sociale: ripetere l’azione non porta ad alcun cambiamento già in vita. In qualche maniera (ed è questa la denuncia più forte di George A. Romero) siamo già zombi da vivi.

    I morti viventi di Zombi ritornano al centro commerciale allo stesso modo in cui lo facevano da vivi: non è la fame di carne umana che li spinge, bensì la memoria del bisogno indotto del consumismo. Analogamente, il morto Bub del Giorno degli zombi perpetua un saluto militare perché parte dell’addestramento ricevuto quando era un soldato (e si “offende” quando non riceve risposta, quasi fosse una mancata gratificazione dell’ordine ben eseguito).

    Il giorno degli zombi

    Gli zombi divorano o contagiano i vivi senza alcun altro apparente scopo che l’istinto: ciò che mangiano non può nutrirli (almeno nella visione di Romero, ripresa e condivisa da altri registi epigoni); pur senza essere un conscio obiettivo, un mondo di zombi è in tendenza l’unico possibile risultato del loro comportamento. Il contagio rappresenta un desiderio inconscio di massificazione della società, il voler rendere tutto uguale annullando ogni sentimento o aspirazione che non siano quelli, privati di ogni senso, della maggioranza: la democrazia passa dal rappresentare le differenze a imporre l’omologazione proprio facendo scomparire ogni differenza. Gli zombi non combattono l’avversario: lo assimilano per annullarlo o renderlo uguale a loro. Spetta ai sopravvissuti la lotta per difendere il proprio diritto all’individualità, al pensiero libero, all’anticonformismo, a non diventare a loro volta parte della massa; facendolo si trovano ad affrontare i problemi di leadership, di scegliere chi deve guidare il gruppo e prendere le necessarie decisioni, di eleggere dei capi. La sopravvivenza diventa da difesa della carne a difesa del libero pensiero e, conseguentemente, della possibilità del cambiamento.

    Proprio nell’ineluttabile destino di diventare e far diventare maggioranza risiede parte dell’orrenda suggestione del morto vivente: la paura che una massa incapace di autogovernarsi determini le nostre decisioni e potenzialmente ci assimili; ancor peggio, il fantasma della democrazia zombi, in un mondo in cui i concetti di democrazia e maggioranza sono divenuti indistinti, non è tanto il pensiero unico quanto l’impossibilità di ogni unico pensiero.

  • Morti fuori e morti dentro

    La notte dei morti viventi

    Quelli sui morti viventi sono tipicamente film di assedio; seguendo il modello classico del cinema, l’azione vede la contrapposizione di due gruppi principali: i vivi, asserragliati in un luogo chiuso, e i morti, che occupano il mondo esterno. La sopravvivenza dei primi dipende dalla resistenza della barricata e, viceversa, la sua fragilità determina il successo dei secondi.

    Di conseguenza la scena si riduce spesso a un unico spazio chiuso, quasi teatrale, un territorio da difendere, circondato da barriere anti-zombi, dai tratti caratteristici e a volte simbolici. Nella Notte dei morti viventi è un’abitazione di campagna; in Zombi un ipermercato di periferia; nel Giorno degli zombi una base militare sotterranea; in Dead Set la casa televisiva di Big Brother; in The Horde un palazzo della banlieue parigina; in World War Z l’intera città di Gerusalemme, circondata da un altissimo muro. Anche The Walking Dead, opera tutto sommato classificabile come on the road, è un susseguirsi di assedi intervallati da fughe, nella eterna ricerca di nuovi posti che possano offrire una almeno temporanea salvezza. I morti non inseguono: convergono, come un fenomeno naturale o una osmosi chimica che porta a livello di entropia la pulsione di morte.

    The Horde

    Per quanto protetto, l’interno è forzatamente un riparo transitorio e non destinato a durare: nessuna barriera può resistere per sempre agli assedianti e la conseguenza prima di ogni assedio è l’esaurimento delle scorte che garantiscono la sopravvivenza. Inoltre, la rivalità tra gli assediati, spesso in disaccordo sulle strategie da adottare per la sopravvivenza del gruppo, rende ulteriormente insicuro lo spazio chiuso, diventando a volte un nemico ben più temibile degli zombi. Nella Notte dei morti viventi la discussione su quale sia il luogo più sicuro della casa è fonte di continui scontri tra i protagonisti. In genere si assiste a una divisione dei vivi tra quanti vogliono continuare a restare all’interno, rafforzando continuamente le difese, e quanti vogliono invece tentare una sortita per cercare un rifugio migliore. I morti si accumulano fuori e dentro la casa.

    Le comunicazioni dall’esterno, quando ancora esistono, contribuiscono all’incertezza e alla confusione: se da un lato radio e tv raccontano il carattere globale della catastrofe, invitando a rimanere al chiuso, dall’altro indicano zone protette (per lo più illusoriamente) dove la popolazione può cercare rifugio.

    Il giorno degli zombi

    Con il pericolo che si annida contemporaneamente all’esterno e all’interno, due tipi di paura convivono in questi film: agorafobia, dato che trovarsi all’esterno in mezzo ai morti viventi non è un’esperienza consigliabile, e claustrofobia, con le mani degli zombi che battono su vetri e porte sbarrate e i vivi che, costretti in spazi sempre più angusti e inospitali, ingannano l’attesa scannandosi tra loro. Nonostante il confine tracciato, l’incertezza accomuna entrambi le zone; spesso tutte le soluzioni possibili, mantenere l’assedio o tentare la fuga, si rivelano letali, contribuendo alla tensione e al continuo spiazzamento dello spettatore, lasciato senza speranza come i malcapitati personaggi.

  • Lo zombi come consumatore finale

    Zombi

    Caratteristica dei morti viventi è la cristallizzazione dei gesti di ogni giorno, ripetuti insensatamente e senza alcuno scopo all’infinito. Dopo la condanna della società punitiva della Notte dei morti viventi, con Zombi George A. Romero inaugura una serie di caricature dell’umanità capitalista: i cadaveri ambulanti tornano al centro commerciale perché rappresentava un punto di riferimento importante della loro vita: la spinta al consumo è così forte che anche dopo la morte rimane motore istintuale. Le mani che premono sulle porte a vetri chiuse sono quelle di consumatori che chiedono di essere ammessi al loro paradiso.

    Elemento fondamentale del perturbante dei morti viventi romeriani è l’inutilità dei loro atti, l’assenza di qualunque volontà, il non perseguire il bene o il male, il loro non progredire verso alcun obiettivo che non sia una sazietà irraggiungibile perché ciò che mangiano non può sfamarli; al tempo stesso la loro unica mira sembra una scelta cosciente di massa, un tentativo di annichilire vita e morte facendo scomparire i vivi ingurgitandoli o riducendoli a loro volta in nuovi morti viventi.

    Zombi

    Per i quattro rifugiati che si barricano nell’ipermercato questo costituisce un’oasi di salvezza ma anche la realizzazione del sogno consumistico attraverso il saccheggio, saccheggio che va oltre la semplice necessità di sopravvivenza e che contribuisce al raggiungimento di una vita agiata secondo gli standard capitalisti dell’omologazione a un modello di esibizione del benessere. Il deposito delle merci è diventato la nuova frontiera da conquistare e difendere come propria, il neo-Far West che contraddistingue il cinema post-apocalittico ma ridotto allo spazio dei prodotti. Al contempo, la banda dei teppisti in motocicletta transita immutata nelle abitudini dal vecchio al nuovo mondo: il vivere alla giornata e l’indifferenza alla proprietà non rappresentano per loro un cambiamento.

    Zombi

    Gli zombi si ritrovano a indossare i loro ultimi abiti da vivi; privi di ricordi consci e in definitiva di identità, la loro unica distinzione diviene per sempre il loro aspetto; i vestiti sono l’unico mezzo per tentare di ricostruire ciò che sono stati. Per il resto sono accomunati nel destino e nella fame, metafora dell’eredità estrema della società: gli zombi non sono cannibali, in quanto non si divorano tra loro; è la società nel suo insieme ad autocannibalizzarsi. Non è una necessità che spinge i morti a cibarsi dei vivi ma il tentativo di obbedire al dogma di un consumismo portato all’estremo.

    Si tratta di un consumismo terminale, in cui non esiste più produzione: zombi e sopravvissuti non creano più, si limitano a divorare l’esistente.  I morti viventi sono la sintesi ultima, i consumatori finali: l’umanità si autodivora senza alcuno scopo, verso un’entropia che unisce vita e morte, consumatori e consumati.

  • Il giorno degli zombi come apocalisse laica

    La notte dei morti viventi

    La risurrezione è un tema che rientra per tradizione nell’esclusivo dominio della religione cristiana; è evidente quindi la carica eversiva del cinema nell’appropriarsi del giorno in cui i morti risorgeranno trasformandolo in un’apocalisse sostanzialmente laica. Non a caso, l’orrore in La notte dei morti viventi comincia in un cimitero, privato del suo ruolo rituale di luogo dell’eterno riposo.

    Nei film sugli zombi nulla di ciò che viene promesso dalla religione viene mantenuto, se non la pura “riesumazione alla vita” della carne. Ma questa rimane appunto carne, per giunta allo stadio della morte o della putrefazione; non c’è in genere alcuna parvenza di anima: a guidare gli zombi è solo una specie di istinto primordiale che li porta a divorare i viventi e a ripetere all’infinito gli stessi gesti di quando erano vivi.

    World War Z

    Per quanto alcuni sopravvissuti tentino di attribuire un’origine mistica agli avvenimenti (una famosa battuta di Zombi recita: “quando non ci sarà più posto all’Inferno, i morti cammineranno sulla terra”), le spiegazioni, quando possibili, sono quasi sempre scientifiche, dalle radiazioni della sonda venusiana della Notte dei morti viventi al virus di World War Z. Non solo: se per difendersi da fantasmi e vampiri sono possibili protezioni di origine pseudoreligiosa come croci ed esorcismi, per gli zombi esistono solo le armi, proprie o improprie, con cui colpirli, (possibilmente in testa, perché solo il livello istintivo del cervello funziona).

    Il giorno degli zombi

    L’assenza del divino e la conseguente implicita negazione di ogni speranza di una vita ultraterrena rafforzano il senso di “fine del mondo” atea, senza alcuna ipotesi consolatoria di origine religiosa: gli unici modi di sfuggire a un’esistenza di eterna non-morte sono restare vivi o assicurarsi di morire definitivamente; non a caso le promesse che si fanno tra loro i protagonisti di questi film sono garanzie di morte: un colpo in testa garantisce di non tornare come zombi. La pietà verso gli uomini non è soccorrere ma uccidere. La religione, con il suo rispetto per i morti, diventa addirittura un ostacolo alla salvezza, impedendo di oltraggiare i cadaveri dando loro il colpo di grazia.

  • Dead Set, o la televisione dei morti viventi

    Dead Set

    Nel 2008, a dieci anni dalla nascita dello show televisivo Big Brother, in Gran Bretagna esce Dead Set, miniserie horror scritta dal giornalista e umorista Charlie Brooker.
    Dead Set è una zombie apocalypse ambientata quasi completamente nella casa di Big Brother; la serie è stata trasmessa per la prima volta da Channel 4, la stessa emittente che mandava in onda il Grande Fratello inglese, e ha visto l’autoironica partecipazione di alcuni dei protagonisti dello show originale. La trama segue l’impianto classico del genere, con la rapida diffusione dell’epidemia che provoca la trasformazione della popolazione in morti viventi (nella fattispecie quelli che corrono) e il successivo assedio dei pochi superstiti in uno spazio ristretto, appunto la casa di Big Brother.
    Apparentemente nulla di nuovo se non fosse appunto per l’ambientazione, che trasforma il film di genere in una spietata satira della reality tv e del suo pubblico, e per la forte carica di violenza splatter, insolita per un prodotto televisivo, che fa schizzare sangue e frattaglie su pavimenti, pareti e obiettivi delle telecamere.

    Dead Set
    Se nel ciclo degli Zombi di George A. Romero i morti viventi sono una metafora della società (di volta in volta punitrice, consumista, militarizzata), qui diventano incarnazione del pubblico televisivo, inconsapevole complice della sua stessa compiaciuta ed entusiastica autocannibalizzazione; un pubblico ridotto a massa per cui la televisione produce e manda in onda una programmazione tagliata sul minimo comune denominatore, a incontrare il gusto della maggioranza; un pubblico che prova al tempo stesso piacere e disgusto a osservare, partecipare e in definitiva a osservarsi.
    A poco o nulla valgono i tentativi di resistere dei superstiti, dalle barricate nella casa fino alla cinica trovata del produttore di usare gli stessi corpi smembrati dei protagonisti dello show come succulenta esca per gli zombi, così come del resto faceva con loro quando erano vivi, dandoli in pasto ai telespettatori affamati della loro vita.

    Dead Set
    Il finale trova i morti viventi a fissare le telecamere ormai inutili del programma, con l’immagine che si replica all’infinito per l’eternità, con l’occhio, che è anche il logo di Big Brother, osservatore e osservato e la quotidianità dello show che diventa quotidianità della vita e ne decreta definitivamente la morte.

  • Tutti i colori di “2001: odissea nello spazio”

    2001: odissea nello spazio è la seconda pellicola a colori di Stanley Kubrick, dopo il bianco e nero di Lolita e Il dottor Stranamore, ed è proprio il colore uno dei mezzi narrativi principali di un film dove l’immagine prevale su tutto e costituisce la storia.

    2001 odissea nello spazio

    Paradossalmente, i colori principali sono due non-colori, il bianco e il nero. Il bianco, luce alla massima intensità ma priva di ogni tinta, conferisce sicurezza ma anche freddezza e artificialità agli ambienti costruiti dall’uomo: gli scafi delle astronavi e i loro interni sono mondi asettici, privi di personalità, dove tutto è messo nitidamente in mostra ma al tempo stesso appare distaccato dall’umano. Bianco è l’ambiente “impossibile” in cui si conclude e nuovamente inizia la vita di David Bowman, ultimo astronauta della missione Discovery: stanze che imitano in modo surreale una suite di hotel in stile settecentesco, illuminata da una luce bianca, di vita e di morte, proveniente dal pavimento.

    2001 odissea nello spazio

    Per contrasto, il nero è il colore con cui si apre e si chiude il film; è il buio della notte primeva, in cui i progenitori dell’uomo si stringono impauriti l’uno all’altro ascoltando il ruggito del ghepardo. Nero è lo spazio in cui si muove la Discovery nel suo viaggio verso Giove: se il cosmo di Star Wars apparirà punteggiato da migliaia di stelle, quello di 2001 è quasi vuoto, a sottolineare la solitudine e la distanza dei terrestri dal loro mondo.

    2001 odissea nello spazio

    Nero è anche il misterioso monolito che compare nei punti chiave della trama e dell’evoluzione umana: un parallelepipedo oscuro e impenetrabile, il cui interno non si può nemmeno immaginare e forse non esiste neppure, oggetto venuto dalle stelle e che alle stelle trasporta. Attraverso il monolito Dave Bowman inizia un viaggio verso l’infinito: il nero del monolito esplode (o implode?) in una miriade di colori che rappresentano mondi lontanissimi. Come lo schermo cinematografico, di cui conserva le  proporzioni, il monolito è lo spazio della possibilità, del sogno e dell’esplorazione. Lo schermo diviene tavolozza di sogno su  cui il regista sparge colori che si rovesciano addosso allo spettatore a incredibile velocità, fino a consolidarsi in nebulose, galassie, stelle, pianeti.

    2001 odissea nello spazio

    Nel bianco della Discovery spicca invece l’occhio rosso di HAL 9000: luce che simboleggia una presenza, unica proprio perché sempre identica a se stessa anche se ripetuta in tutti gli ambienti dell’astronave e persino al suo esterno, sulle capsule per l’attività extraveicolare; il cerchio rosso, oggetto osservabile e osservatore, soggettiva artificiale dell’obiettivo, incarna l’essenza di HAL e la rappresentazione della sua onniscienza e pervasività a bordo dell’astronave. Colore tutt’altro che rassicurante, il rosso è  la condizione di pericolo: rossa è la camera stagna attraverso cui Dave rientra sulla Discovery, come rosso è il cervello stesso di HAL, stretta stanza dove risiedono i moduli della coscienza del computer.

    2001 odissea nello spazio

    Quasi trasparente è l’involucro che racchiude il Bambino delle stelle, il nuovo, rinato ed evoluto Dave Bowman, che torna verso l’azzurra Terra e conclude il film interrompendolo bruscamente e riprecipitandoci ancora una volta nel nero e nell’incertezza del futuro.

  • Morti che camminano e morti che corrono

    L'alba dei morti viventi
    I morti che corrono non mi piacciono. Non che abbia qualcosa in contrario a una efficiente deambulazione dei defunti, ma per me gli zombi che camminano strascicando i piedi sono migliori. C’è qualcosa di inquietante e definitivamente simbolico nel contrasto tra la facilità con cui si può abbattere un nemico lento, impacciato e rimbecillito rispetto all’essere letale di una massa di individui del genere.
    Detto questo, L’alba dei morti viventi di Zack Snyder è un buon film. Sfugge dal facile schema del remake riproponendo sì la medesima ambientazione dell’originale (il centro commerciale) ma costruendo un suo percorso, meno politico e splatter e più ironico, fracassone e forse ancor più pessimista dell’originale Zombi di George A. Romero.
    L'alba dei morti viventi
    Gli stereotipi del genere ci sono tutti, dallo stato di assedio alle lotte all’interno del gruppo di assediati, dal mondo apocalittico ai pasti a base di carne umana. L’apporto di Snyder sta nelle situazioni della quotidianità, come il dialogo a base di cartelli con un sopravvissuto isolato, e nella regia nervosa, nella visione globale dell’apocalisse, nell’immagine piena di disturbi elettronici che rende l’attualità del mezzo del racconto, mass-mediale e continuamente rimediante, con visioni pop tra reportage, videoclip e fumetto.
    Le citazioni per l’appassionato cinefilo si sprecano (il bagno da Shining e il predicatore televisivo da Zombi, tanto per citarne un paio); la musica diegetica del centro commerciale fa spesso da contrasto ironico e divertito all’azione.
    Peccato per i personaggi, che incarnano ruoli poco sviluppati, e per alcune scene imbarazzanti e gratuite. La carica sovversiva e underground si perde e il morto vivente passa da metafora della società a puro oggetto scenico di un action movie e corre come gli zombi di 28 giorni dopo di Danny Boyle.

  • H.R. Giger, l’alieno biomeccanoide

    Ripubblico qui un articolo che scrissi ormai quasi vent’anni fa per la rivista Betarelease. H.R. Giger se n’è andato dopo aver popolato il nostro immaginario di meravigliosi mostri.

    Siamo tutti insettoidi estranei, nascosti nei nostri corpi urbanoidi. I quadri di Giger che mostrano la carne, i suoi paesaggi al microscopio, sono segnali di una mutazione.
    Timothy Leary

    Se Alien di Ridley Scott è diventato uno dei maggiori successi della fantascienza cinematografica, molto è dovuto a Hans Ruedi Giger, che ne ha disegnato le scenografie e ha progettato l’insidioso parassita extraterrestre che divora i membri dell’equipaggio dell’astronave Nostromo.

    Alien

    Nato nel 1940 in Svizzera, Giger è un artista quanto mai eclettico: oltre che ad Alien, ha lavorato a molti altri film di fantascienza. Ma è soprattutto pittore e scultore. Titoli di opere come Biomeccanoidi o Erotomechanics riflettono bene una estetica del metallo che si stempera nella carne, dell’arto che si prolunga nella simulazione bionica, di se stesso o di qualcos’altro.

    Nei quadri di Giger, lo sfondo si ibrida spesso con i soggetti ritratti, inglobandoli e nutrendosene. E a volte sono gli stessi soggetti a costituire lo sfondo dell’opera, come nella serie dei Paesaggi biomeccanici. Ossa ed eso-endoscheletri al titanio, carne e membrane elastiche, tubi e vene emergono indifferenziati a costituire corpi-macchina, corridoi di nervi e muscoli, cyborg torturati, organi sessuali per travasamenti in serie che sembrano usciti dal Mondo nuovo di Huxley.

    Li II

    Le tele gigantesche spruzzate con l’aerografo sono veri e propri ipertesti che illustrano la “trasmigrazione biomeccanica dell’anima” (titolo di un quadro di Giger), la mutazione dei nostri corpi e dei nostri strumenti in una nuova entità. Come un cancro creatore, il metallo degli oggetti di cui ci circondiamo si insinua sotto la pelle e ci modifica, arricchendo i nostri corpi di nuovi, infiniti sensi.

    The Spell I

    Le strutture raffigurate nelle opere di Giger sembrano parti di immense macchine, di cui gli esseri viventi sono parte integrante. E l’artista non sembra essere attratto tanto dalla funzione della macchina, quanto dalla sua fattibilità, almeno artistica. Ma la visione, pur in apparenza da incubo, non è da vedersi in chiave pessimistica, come profezia di una tecnologia che asserve l’uomo. Come ha scritto Timothy Leary, “… in queste opere ci vediamo come embrioni striscianti, come creature fetali, larvali, protette dall’involucro dei nostri ego, in attesa del momento della metamorfosi e della rinascita… Giger ci dà il coraggio di salutare il nostro io insettoide”.

    Cronologia di una mutazione

    1940 – Nasce a Chur, Svizzera.
    1960 – Costruisce la Camera nera.
    1964 – Realizza gli Atomkinder.
    1966 – Termina la scuola di artigianato e allestisce la prima mostra personale a Zurigo.
    1969 – Vengono stampati i primi poster da opere di Giger, tra cui Biomeccanoidi 1969.
    1971 – Viene pubblicato ARH+, il primo catalogo delle sue opere.
    1973 – Disegna la copertina del disco Brain salad surgery di Emerson, Lake & Palmer.
    1976 – Lavora al progetto del film Dune.
    1977 – Comincia a lavorare ad Alien.
    1979Alien viene presentato al pubblico a Hollywood. Davanti al cinema troneggia un’enorme quadro di Giger realizzato per il film.
    1980 – Giger riceve l’Oscar per gli effetti speciali di Alien.
    1981 – Dipinge la serie di quadri N.Y. City.
    1983 – Viene invitato come ospite d’onore ai festival del cinema fantastico di Bruxelles e Madrid.
    1985 – Realizza varie scene per Poltergeist II.
    1986 – La rete televisiva tedesca ZDF realizza un documentario dal titolo L’universo fantastico di H.R. Giger.
    1987 – Mostra di opere di Giger in Giappone, alcune delle quali appositamente ralizzate. Nasce Biomechanoid 87, il fanclub giapponese dedicato a Giger.
    1988 – A Tokyo viene realizzato il primo Bar Giger.
    1990 – Lavora ad Alien III.
    1995 – Lavora al film Specie mortale.
    1996Visioni di fine millennio: mostra di opere di Giger a Milano.

    Gigerjargon

    Alien – Film di fantascienza diretto da Ridley Scott nel 1979. Giger realizzò scenografie e il costume dell’alieno, di cui Carlo Rambaldi mise a punto i movimenti meccanici.
    Atomkinder – Bambini atomici. Serie di disegni a china apparsi su varie riviste scolastiche.
    Camera nera – Sorta di “tunnel dell’orrore”, con scheletri e mostri vari animati da Giger e dai suoi amici, per il “divertimento” dei visitatori
    Dune – Progetto per un film di fantascienza tratto dalla omonima saga letteraria di Frank Herbert. Giger realizzò dipinti e disegni preparatori. Il progetto venne poi abbandonato dal regista Alexandro Jodorowsky per mancanza di finanziatori. Il film venne in seguito realizzato da David Lynch, senza H.R. Giger.
    Poltergeist II – Film dell’orrore diretto nel 1986 da Brian Gibson, seguito del primo Poltergeist di Tobe Hooper. Nonostante il discreto successo, Giger si dichiarò insoddisfatto della realizzazione visuale dei suoi progetti.
    Specie mortale – Film di fantascienza di Roger Donaldson, per il quale Giger crea l’aliena Sil.

  • Tutti i bambini di Spielberg (o quasi)

    Il cinema di Steven Spielberg è per una buona parte cinema per bambini, sui bambini ma soprattutto atttraverso i bambini. Oltre la narrazione compare un punto di vista costantemente meravigliato delle potenzialità del mezzo cinematografico, della fascinazione delle immagini e della costruzione filmica. Anche in film “adulti” Spielberg ci fa regredire o ci mette a confronto con il nostro stupore di bambini.

    Lo squalo

    Lo squalo minaccia gli esseri umani senza distinzione di età ma la meraviglia per la creatura mostruosa e l’avventura della sua ricerca ci ritrova tutti bambini: la caccia prende a tratti la connotazione del gioco. Spielberg mescola temi “alti” da Melville e Hemingway alla cultura pop senza perdere d’occhio la traccia favolistica.

    Incontri ravvicinati del terzo tipo

    In Incontri ravvicinati del terzo tipo spetta al piccolo Barry sperimentare in prima persona l’incontro con gli alieni, senza averne paura e affascinato dalle splendide luci che scendono dal cielo e dalla misteriosa e ipnotica melodia di cinque note che invita a giocare. Il tema del Pinocchio disneyiano ricorre più volte e When You Wish Upon A Star riecheggia quando il protagonista, circondato da alieni che dei bambini hanno l’altezza e le movenze, si fa portare via da loro verso un viaggio che è forse la realizzazione di un sogno dell’infanzia.

    In 1941 – Allarme a Hollywood gli adulti, con le loro paure di invasioni giapponesi, si rivelano degli inguaribili bambinoni (John Belushi per primo) alle prese con giocattoli troppo grandi per loro; persino il generale che dovrebbe occuparsi di organizzare la difesa viene sorpreso al cinema mentre si commuove guardando Dumbo.

    I predatori dell’arca perduta e in generale la serie di Indiana Jones è un unico grande luna park, con scheletri, serpenti, topi, insetti e altri animali “schifosi”, cattivoni che spaventano e divertono come i fantocci del tunnel degli orrori, mentre i protagonisti vengono sballottati qua e là su un gigantesco ottovolante di continue invenzioni e peripezie.

    E.T. L'extra-terrestre

    E` invece E.T. L’extra-terrestre  il primo film spielberghiano a raccontare una storia per  bambini e da bambini  interpretata. Elliott, Gerthie e Michael sono testimoni del primo “incontro ravvicinato” e proteggono l’alieno da un mondo fatto di adulti, mondo nemico, in quanto scettico o fin troppo interessato, tanto a loro quanto a E.T.; è un segreto da custodire in camera e da rivelare solo ai coetanei. La magia è quella della favola di Peter Pan: la radura nel bosco da dove “telefonare casa” diventa un’Isola che non c’è che i grandi non possono o non devono trovare. Anche la macchina da presa assume il punto di vista e l’altezza dei piccoli protagonisti, a indicare maggiore meraviglia per l’ignoto e per un mondo che ci appare di colpo immenso anche se quasi completamente limitato all’interno della casa dove si svolge la maggior parte dell’azione.

    L'impero del sole

    La guerra e la prigionia viste dal giovanissimo Jim sono invece al centro del ballardiano L’impero del sole. L’invasione della Cina da parte del Giappone separa il protagonista (un quasi esordiente e bravissimo Christian Bale) dai genitori e dal mondo sicuro e protetto in cui viveva per precipitarlo all’interno della guerra, della prigionia, della fame e della morte. Pur costretto a crescere in fretta, Jim non perde il suo sguardo meravigliato ed entusiasta: caccia a volo radente e bombardieri sono giganteschi giocattoli che per la prima volta sono visibili da vicino, quasi a portata di mano, e poco importa del pericolo che rappresentano. La terribile luce della prima bomba atomica diventa un’anima che vola in cielo; l’aviatore giapponese, kamikaze fallito, diventa un amico con cui condividere una passione.

    Un grande che impara a ritrovare l’infanzia è invece il protagonista di Hook – Capitan Uncino, in cui Robin Williams interpreta un Peter Pan immemore del proprio passato che riscopre la possibilità di credere di nuovo alle favole e alla capacità di volare grazie a un nuovo “pensiero felice”.

    Jurassic Park

    Jurassic Park è di nome e di fatto un parco di divertimenti tematico per i bambini in scena ma anche per gli spettatori che bambini ridiventano, stupiti dalla potenza dell’effetto digitale che porta sullo schermo splendidi mostri che fino ad allora erano stati quasi sempre animati a passo uno.

    Schindler's List

    E’ il cappotto rosso di una bambina ebrea, unica macchia di colore in un film rigidamente in bianco e nero, a sottolineare l’orrore in Shindler’s List. Lo vediamo due volte, condividendo lo sguardo del protagonista: la prima quando la piccola sembra sfuggire al rastrellamento del ghetto; la seconda quando il corpo della piccola viene riesumato e avviato insieme ad altre migliaia alla cremazione con cui i nazisti tentato di nascondere le prove dei loro massacri.

    Un bambino falso ma “più umano dell’umano” è il protagonista di A.I. – Intelligenza artificiale, tra un Pollicino e un Pinocchio ipertecnologico che, come il suo predecessore di legno, anela a diventare un bambino vero. Il suo ultimo desiderio sarà quello di vivere ancora un giorno con la madre adottiva.

    La salvezza dei figli è al centro delle preoccupazioni di Tom Cruise di fronte all’invasione aliena nella versione spielberghiana della Guerra dei mondi. Perso il primogenito, attratto  dal fascino dell’evento, è la sorella minore Rachel a diventare l’unico pensiero del protagonista, che si occupa al tempo stesso di proteggerla dalla cattura da parte degli extraterrestri e dall’orrore della vita sul pianeta sconvolto dall’attacco. In un film influenzato nell’estetica e nei temi dagli attentati dell’11 settembre, il nemico da cui fuggire è una minaccia esterna ma anche la follia paranoide degli stessi terrestri.

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