Categoria: Cinema

  • Un saluto a Gerry Anderson

    Un saluto a Gerry Anderson

    Una scena di Spazio 1999

    Gerry Anderson se n’è andato. Noto principalmente come produttore dei Thunderbirds, per me è stato soprattutto il creatore di quel magnifico ricordo d’infanzia che è Spazio 1999.

    Nato originariamente come uno spin-off di UFO, Spazio 1999 visse in realtà di vita propria. La storia cominciava il 13 settembre 1999, quando una catastrofica esplosione nucleare sulla Luna spediva il nostro satellite e la Base Lunare Alfa che vi si trovava fuori dall’orbita terrestre, alla deriva nel cosmo.

    Nato poco prima della rivoluzione portata da Guerre stellari, il telefilm risentì dell’influenza di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick: il personale della base non era costituito da militari, come nella sf alla Star Trek, ma da scienziati e tecnici; gli incontri con i misteri del cosmo si concludevano spesso con l’impossibilità di intervenire o con il fallimento degli umani di fronte a realtà più grandi di loro che a stento potevano comprendere.

    Prevaleva un approccio scientifico (per quanto le teorie del professor Bergman fossero quanto meno approssimative), l’osservazione piuttosto che la conquista, unito al desiderio di trovare una nuova casa e a un certo fatalismo (gli alfani non avevano modo di controllare la rotta lunare o di tornare a casa).

    Se il fascino della serie era dovuto sicuramente all’impatto sull’immaginario della futuribile e credibile tecnologia (niente teletrasporto ma rozze e funzionali astronavi Aquila, a cui si arrivava mediante una metropolitana interna che collegava i diversi settori della base) e del look (interni completamente bianchi, con finestre che mostravano il desolato suolo lunare, arredo e accessori di design anni ’70, lunghi corridoi inframezzati da colonnine con monitor e sistemi di comunicazione, uniformi che si differenziavano solo per il colore della manica che indicava il settore di competenza), grande influenza la ebbero anche i personaggi meravigliosamente delineati, dal comandante John Koenig (il bravissimo Martin Landau) al professor Victor Bergman, alla dottoressa Helena Russell fino al capitano Alan Carter.

    Mi ricordo le Aquile in volo. Mi ricordo il laser e il comunicatore, ricostruiti pazientemente con il Lego nei pomeriggi a casa dopo la scuola. Mi ricordo l’immane esplosione che iniziava il viaggio della Luna nell’universo. Mi ricordo la Russell e Koenig seduti a riflettere su quello che accadeva, in inquadrature simili a quella in cima a questo post. Mi ricordo i nomi di Gerry e Sylvia Anderson visti decine di volte nei titoli di coda di ogni episodio, quando non restava altro da fare che attendere il giorno o la settimana successivi per una nuova avventura.

    Edit: il primo episodio, direttamente dal canale RAI di YouTube:

    http://www.youtube.com/watch?v=DfL4NV0pHFs

  • L’eterno ritorno dei morti viventi

    Alcuni recenti e purtroppo tragici episodi di cronaca riguardanti casi di cannibalismo hanno avuto come curioso effetto collaterale quello di scatenare una curiosa reazione sui social media, in particolare Twitter, portando un fiume di commenti che vanno dal preoccupato all’ilare su una ipotetica “apocalisse degli zombi”.

    Tralasciando il delirio da “fine del mondo” di alcuni e il non proprio raffinato umorismo di altri, è interessante osservare come eventi non nuovi, anche se fortunatamente rari, come gli sporadici casi di “mostri” antropofagi si siano collocati nell’immaginario dei morti viventi. Un ruolo non indifferente ha avuto l’apparente caratteristica “epidemica” di episodi slegati tra loro, tanto che l’agenzia statunitense CDC ha addirittura diramato un comunicato per negare l’effettiva esistenza di un “contagio zombesco” (non siamo all’incursione radiofonica di Orson Welles con la sua versione della Guerra dei mondi, ma quasi); paradossalmente proprio il CDC aveva lanciato una campagna per il pronto soccorso che usava come immagine proprio gli zombi.

    A livello almeno di immaginario cinematografico, i morti viventi sono tra noi da decine di anni (senza considerare gli antenati non-morti a vario titolo come vampiri o mummie), a partire dallo storico La notte dei morti viventi di George A. Romero fino ai più recenti Dead Set (che li cala nella quotidianità del reality televisivo) e The Walking Dead (variazione fumettistica poi tradotta in serie tv di successo); sono insomma elementi popolari ormai stabilizzati e permamenti, dal comportamento noto e ben definito.

    Il fascino dell’apocalisse zombi affonda le radici anche in altri elementi suggestivi: il collasso della civiltà, la perdita o il sovvertimento delle regole, la fine (o l’estremizzazione) di una società costrittiva e punitiva o semplicemente consumistica (vedi Zombi sempre di Romero). Tutto questo incontra poi la passione un po’ paranoide per il cosiddetto survivalism, che di epoca in epoca motiva in maniera diversa la sua esistenza (dalla guerra atomica alle carestie, alla fine delle risorse) ma comunque rimane associato all’esigenza di “essere pronti” a fronteggiare un ipotetico crollo della civiltà umana seguita da una sua quasi totale estinzione; qualcuno ha anche pensato di farsi pubblicità (con cinica ironia) sfruttando il panico da zombi per vendere munizioni (purtroppo vere). A questo si associano anche i flash mob fracassoni e divertenti di cosplayer truccati a tema living dead. Insomma, un immaginario catastrofico che viene vissuto anche socialmente (per gioco o per fobia) nel tentativo forse di preservare la propria umanità, resistere di fronte a una uniformizzazione che intacca il senso di individualità.

    Per gli appassionati, esiste anche un esempio di studio universitario del contagio a tema (serio: serve a illustrare un modello matematico di diffusione delle epidemie).

  • Estetica del riuso: Hardware

    Volendo riassumere la trama di Hardware di Richard Stanley in una frase si potrebbe dire “un robot perseguita una ragazza per ucciderla”. Sono evidenti le analogie con Terminator, ma Hardware differisce dal modello di James Cameron per le radicali scelte stilistiche.

    Ambientato in un futuro post apocalittico, dove buona parte del pianeta è ridotta a un deserto nucleare, il film di Stanley è girato quasi totalmente in un appartamento in cui una giovane artista assembla una scultura utilizzando scarti e parti di recupero, tra cui la testa di un robot ritrovata tra le sabbie radioattive. Il robot è in realtà una macchina bellica progettata per uccidere, un’arma militare che appena possibile si autoripara con quello che trova in casa e comincia la sua missione distruttiva.

    Il finale è abbastanza prevedibile (e il film non è certo privo di difetti) ma il punto forte di Hardware non sta tanto negli avvenimenti quanto nell’estetica e nel modo di raccontarli. L’ambientazione cyberpunk (iconografia a tutto tondo, dall’abbigliamento alla musica), in cui tecnologia e biologia si miscelano indissolubilmente, si riflette nella scenografia metallica e nebbiosa, dove meccanica ed elettronica si confondono nelle pareti domestiche come nei giganteschi cumuli di spazzatura per la strada.

    Il montaggio serrato alterna le riprese della scena con innesti video: monitor di computer, telecamere di sorveglianza, videotelefoni e videocitofoni, segnali e interferenze tv, videoclip industrial, soggettive del robot che mostrano una realtà catodica e digitale “diversa”, familiare e aliena al tempo stesso, che smonta e ricostruisce la visione in un flusso continuo di dati.

    In un film che, per necessità di budget, si deve arrangiare con quello che c’ è a disposizione, in un mondo disfatto che sembra vivere di riciclo (dalla megalopoli cosparsa di rifiuti in parte riutilizzati alle sculture della protagonista) anche l’immagine si riduce a qualcosa di già ripreso da qualcos’altro, diventa una proiezione stroboscopica di frammenti riutilizzati. La realtà, sia essa vicina o remota, si svela attraverso la mediazione elettronica. Solo l’incontro/scontro fisico, il corpo a corpo sessuale o bellico riportano alla percezione im-mediata.

  • Ponti sugli immaginari: Titanic, la nave dei sogni

    Titanic, di James Cameron

    Se il Titanic è la nave dei sogni, Titanic è il film dei sogni. Titanic è un film “mascherato”; i molteplici livelli di lettura a cui può essere sottoposto sono smaccatamente messi in mostra, ma quello che meno appare evidente è proprio il genere del film: più di ogni altra pellicola di James Cameron, Titanic è un film cross over. I molteplici generi e relativi immaginari a cui si appoggia sono forse la ragione principale del suo successo.

    Titanic è un film in costume, con una ricostruzione dei fatti accurata e tuttavia falsamente storico, non tanto per le inesattezze e le volute forzature, quanto per il comportamento e l’attitudine mentale dei personaggi. I protagonisti che Cameron ci propone sono cittadini del loro tempo solo in apparenza: le loro idee e le loro azioni sono quelle di chi ha già vissuto i mutamenti sociali del secolo scorso.

    Il suo essere esteticamente moderno, nei movimenti di macchina, nella ricostruzione digitale, fa sì che Titanic possa quasi collocarsi all’interno di un immaginario steampunk più che in quello dei film storici; la fascinazione e l’attualizzazione della tecnologia trasportano il transatlantico dal tempo a cui dovrebbe appartenere a un mondo ucronico, un tempo alternativo in cui l’energia del vapore guida il progresso; i protagonisti diventano abitanti del presente/futuro in cui ci si può identificare più facilmente proprio perché svincolati dalla loro epoca.

    Titanic è un film d’azione: gli inseguimenti e le fughe tanto cari a Cameron si susseguono, interrotti solo dall’evento catastrofico, con un andamento a duplice spirale, prima discendente, quando Rose e Jack si avventurano nei meandri della nave per sfuggire a Cal e al suo scagnozzo Lovejoy, poi ascendente, quando i passeggeri tentano disperatamente di salvarsi, di allontanarsi dalla inevitabile “discesa nel Maelstrom”.

    Il contrastato amore tra Rose e Jack, novelli Giulietta e Romeo, rende Titanic collocabile anche nella tradizione del film romantico-sentimentale tout court, dove una relazione impossibile e contro tutte le convenzioni di un mondo “adulto” diventa per milioni di spettatori, soprattutto giovani, il sogno da rincorrere e incarnare.

    Naturalmente (e soprattutto) Titanic è un film catastrofico, alimentato da suggestioni di classici come L’inferno di cristallo, L’avventura del Poseidon o i capitoli della serie Airport. La catastrofe è una costante nel cinema cameroniano, dal cupo mondo postatomico di Terminator alla distruzione della natura in Avatar, ma è Titanic il suo film più aderente agli stilemi del genere. Nella tradizione del catastrofico, il mondo si divide tra chi cerca di mettersi in salvo a scapito degli altri e chi cerca di aiutare i propri compagni di disavventura, magari a rischio della propria vita; i “buoni” possono sopravvivere o morire eroicamente, i “cattivi” vengono puniti per la loro vigliaccheria con la morte o con l’infamia.

  • Attraverso lo schermo: Tron

    Una scena da "Tron".

    Trent’anni fa usciva nelle sale cinematografiche Tron, film che, pur nella sua ingenuità, rompeva per la prima volta la sottile barriera dello schermo del computer per trasportare il protagonista (e con lui lo spettatore) nel mondo digitale dei videogiochi.

    Eliminando in modo forse un po’ infantile ogni tipo di interfaccia, il gioco scomponeva il corpo dell’incauto Flynn/Jeff Bridges e lo rigenerava all’interno del ciberspazio videoludico; hic et nunc totale, dunque, senza ambiguità identitarie: il mondo del videogioco è reale tanto quanto basta a ospitare una vita ricreata; non ci si collega ma ci si teletrasporta. La carne cessa di esistere e diventa informazione, insieme di bit descrittivo di una nuova forma. Il mondo di Tron esiste e non è per nulla virtuale. Il nuovo corpo non è una estensione della carne ma una sua transustanziazione. Non si indossa un avatar ma lo si diventa.

    Anche se costretto in una superficialità da giocattolone disneyano per adolescenti, Tron ha sfondato lo specchio prima e più dei vari Tagliarbe o Matrix, rendendo possibli vite che si muovono nella dimensione digitale come le I.A. e i costrutti gibsoniani, con una resa visiva primitiva ma dotata di uno stile grafico insuperato, con scene astratte e surreali che sembrano uscite dai disegni di Karel Thole.

  • Blade Runner, o video ergo sum

    Il test Voight-Kampff in Blade Runner

    C’è un’immagine ricorrente in Blade Runner: l’occhio domina lo schermo fin dalla sequenza di apertura e ritorna ciclicamente in tutto il film. Il test Voight-Kampff osserva la dilatazione della pupilla; il gufo fasullo della Tyrell Corporation ha un occhio ancor più fasullo; nella ricerca della loro origine i replicanti passano dal costruttore di occhi; Roy indossa per scherzo degli occhi giocattolo; il creatore-padre Tyrell viene accecato prima di essere ucciso.

    L’occhio e, quindi, l’atto dell’osservare e del ricordare diventano sinonimi di identità. La Tyrell pensa di poter controllare i suoi prodotti dotandoli di falsi ricordi, di una vita iniettata che ne determina i comportamenti e ne rende prevedibili le emozioni. Rachael ha una foto che la rappresenta con la madre: si tratta di un falso a cui la replicante, inconscia del proprio essere, si attacca come ultima difesa della sua umana identità, che cede di fronte alla dimostrazione di Deckard che le svela i suoi stessi ricordi più intimi. Leon si fa scoprire perché ha dimenticato le foto che si porta dietro, come una specie di album-ricordo della sua breve vita.

    Vedo, dunque ricordo e sono. I replicanti non dovrebbero aver bisogno di fotografie, ma queste diventano documenti prova dell’umanità dell’essere artificiale, supporto di esperienze reali o mai vissute che cementano la loro esistenza in un blocco di realtà accettabile e dimostrabile. Morendo, Roy elenca le esperienze vissute che andranno perdute con la sua morte “come lacrime nella pioggia” e si tratta di esperienze esclusivamente visive. “Ho visto” diventa un “J’accuse” a difesa del diritto alla vita postumano in un film che è un accumulo di immagini del futuro che si fanno realtà condivisa per gli spettatori.

  • Appunti sparsi sul cinema di James Cameron (5)

    Terminator 2

    Quasi venti anni prima dei “naturali” Na’vi di Avatar, la presenza del T-1000 in Terminator 2 mostra come un personaggio digitale possa mettere in crisi ogni convinzione, ribaltando qualsiasi aspettativa di stabilità e coerenza; è come se di colpo ci si trovasse di fronte a un folle personaggio fuggito da Cartoonia e rifugiatosi in un film dallo stile iperrealista, calato nel nostro presente e assolutamente verosimile; le sue braccia si trasformano come quelle del giudice di Chi ha incastrato Roger Rabbit? e se non gli fossero imposte delle limitazioni, per esempio l’incapacità di trasformarsi in meccanismi o esplosivi, sarebbe potenzialmente in grado di diventare qualsiasi cosa.

    Trovandosi di fronte alla impossibilità di riproporre uno Schwarzenegger malefico (la popolarità dell’attore tra i due Terminator è salita a tal punto che non si può più proporlo come un villain), James Cameron deve inventare un cattivo ancora più terribile, ma tenendo presente che non deve essere più grosso del rivale, la cui stazza lo rende già poco credibile come unità di infiltrazione tra gli umani.

    Il T-1000 è figlio della tecnologia dell’effetto speciale usata per rappresentarlo: la sua immagine costituita da pixel sullo schermo del computer che la genera rispecchia la sua essenza nel film, quella di essere forma rappresentante della stessa informazione che la descrive, dove ogni singolo atomo è disposto a seconda dell’identità da replicare. Il T-800 è opera scultorea, assemblato di furiosa arte post-industriale (il cui processo di costruzione viene reso esplicito in Hardware di Richard Stanley, dove un robot militare, ricomposto da una scultrice, si riattiva e tenta di assassinare l’artista); il T-1000 è invece materia prima che dà forma a se stessa al di là del prevedibile. Se del T-800 ci viene mostrata la soggettiva, una realtà aumentata che mostra informazioni sull’ambiente sovrimpresse a un mondo virato in rosso e che nel primo film si contrappone a un’altra soggettiva, quella umana di Kyle Reese, del T-1000 non conosciamo lo sguardo, il modo di vedere; la sua essenza, definitivamente al di là dell’umano, non può essere compresa o condivisa.

    Ma, pur nella sua artificialità digitale, il T-1000 ha qualcosa di primitivo, di radicale, di strettamente relativo alla sua natura di elemento; la sua vulnerabilità si dimostra con un cambiamento di stato: lo si può sciogliere o congelare, riducendolo a un liquido che ricorda il mercurio o cristallizzandolo. Come il primo Terminator schiacciato da una entità sua omologa, la pressa industriale, anche il T-1000 viene distrutto da un elemento a lui simile, la vasca di acciaio fuso, punto di nascita e di morte del metallo.

  • Appunti sparsi sul cinema di James Cameron (4)

    Uno dei sensori di movimento di Aliens

    Nonostante la ricchezza visiva, Aliens è un film che sostiene l’impossibilità dello sguardo indiretto e il fallimento dell’esperienza mediata come apportatrice di significato; al contempo è un film sulla guerra ripresa e teletrasmessa che anticipa di qualche anno quella che sarà la guerra televisiva per antonomasia, quella del Golfo persico del 1990. James Cameron è un regista che, se da un lato celebra le meraviglie della tecnologia, sia quella mostrata nei suoi film sia quella utilizzata per realizzarli, dall’altro ne mostra i fallimenti e i pericoli.

    I marine del futuro di Aliens portano montata sul casco una telecamera che trasmette le immagini a una specie di regia mobile sul mezzo blindato con cui il plotone è sbarcato; la soggettiva ha contribuito così tanto a radicare il film nell’immaginario che è stata riutilizzata anche per i menù animati dell’edizione in Dvd. Alcune armi sono simili a steadicam, con una imbracatura che stabilizza le vibrazioni consentendo una mira precisa e fluida (con interessante specularità, Federico Fellini annotava nei suoi appunti per Ginger e Fred che i cameraman della trasmissione TV avrebbero dovuto impugnare le telecamere come dei mitra, la televisione come creatura violenta dallo sguardo omicida).

    L’inesperto tenente Gorman si trova a ricoprire il ruolo di un regista e gli ordini che impartisce sono espressi nel linguaggio del cinema o della televisione, come panoramiche e zoom. Il tenente si rivela incapace di governare la missione quanto di controllare i suoi soldati-cameraman, risposta indiretta di Cameron ai suoi detrattori, che gli danno del bravo mestierante e nulla più: il tenente-regista fallisce il controllo della tecnologia, si rivela incapace di usarla per portare avanti la missione-trama e di guidare la sua squadra. La morte dei marine coincide con l’interruzione della ripresa, il pericolo nascosto in agguato con l’effetto neve dei disturbi elettronici. L’immagine degrada e perde di qualità mano a mano che i soldati si addentrano nella struttura della colonia e si avvicinano agli alieni. La ripresa televisiva non porta informazione proprio quando questa sarebbe più necessaria. Se le prime vittime di Alien scomparivano senza lasciare traccia, la morte elettronica dei soldati di Aliens è annunciata dal nero del monitor, mentre le linee dei loro segni vitali si appiattiscono di colpo (come già accadeva sulla Discovery per l’impercettibile morte degli ibernati uccisi da HAL 9000 in 2001: Odissea nello spazio) oppure rimangono flebili a indicare la loro lenta agonia.

    I dispositivi radar di cui sono dotati i marine rendono invece visivo un pericolo che ancora non si è manifestato: sono detector di movimento (autocitati da Cameron successivamente in Avatar) che emettono una pulsazione continua e rassicurante nel silenzio, ma che all’avvicinarsi degli alieni si riempiono di macchie bianche che convergono verso il centro, mentre un suono acuto e intermittente aumenta la frequenza come un sonar di prossimità. I detector però riportano una realtà oggettiva diversa da quella soggettivamente percepita a cui è quindi difficile credere: i marine barricati nel laboratorio non credono ai detector quando questi segnalano che gli alieni sono vicinissimi, perché non li vedono, e troppo tardi realizzano che il nemico è sopra di loro e striscia silenzioso nel controsoffitto. Più tardi, quando Ripley troverà il localizzatore di Newt sul pavimento si accorgerà che la bambina l’ha perduto e che lei ha perso tempo seguendolo. In mancanza di possibilità interpretativa, l’occhio elettronico non porta abbastanza informazione, mente o conduce a una falsa pista.

  • Appunti sparsi sul cinema di James Cameron (3)

    Una vittima galleggia nelle gelide acque di "Titanic"

    “And there shall be no more death or mourning, crying out or pain, for the former world has passed away.”

    (l’ultimo versetto recitato da Padre Byles in Titanic)
    Il cinema di James Cameron, come quello di un altro grande artigiano e (re)inventore, George Lucas, si offre a strati, a profondità diverse, ma mantiene sempre una superficie accessibile a tutti, si democraticizza e si rende commerciale senza tuttavia perdere in profondità.

    2001 o Shining di Kubrick, Duel di Spielberg impongono allo spettatore di cercare un suo percorso interpretativo per poter seguire compiutamente la trama; Aliens, al pari di Guerre stellari, non lo considera obbligatorio.

    Ma è poi lo stesso Cameron a indicare le entrate dell’abisso a chi ci si voglia immergere: tutti i suoi film si prestano facilmente a diverse chiavi di lettura, offrendo sentieri cinefili, politici, sociologici, oltre all’esplorazione delle ossessioni fin troppo evidenti del regista o ai mille particolari e curiosità che fanno la felicità dei cultori del suo cinema.
    In questo True Lies è il più semplice, pura azione e divertimento, mentre Abyss è il più complesso e ambizioso, forse troppo per portare a compimento tutti i molteplici percorsi suggeriti.

    Titanic, con la sua storia romantica, la sua ricostruzione documentaristica, la sua nave-Babele, la sua società nettamente divisa in due tra alto e basso come in Metropolis di Fritz Lang, il suo rappresentare una storia ma anche il cinema stesso, riesce meglio degli altri a trovare il giusto equilibrio tra i differenti temi, a diventare “metafora di qualunque cosa”, come dice iperbolicamente Woody Allen del suo personaggio in Zelig.
    Il mondo che non esiste più citato da Padre Byles pochi istanti prima che il transatlantico si inabissi non è solo quello terreno e materiale della visione biblica. Il Titanic ospita l’antica nobiltà, ancora ottocentesca nei suoi privilegi, che sarà spazzata via pochi anni dopo come i vecchi imperi nel vortice della Grande Guerra, i nuovi ricchi e i nuovi schiavi, industriali ed emigranti, il popolo a cui non si potrà più rifiutare il legittimo spazio partecipativo.

    Il Titanic trasporta la nuova arte e la nuova scienza: Cameron piega la ricostruzione ai suoi scopi, infilando nel bagaglio di Rose quadri di Picasso e Degas, che sul Titanic non sono mai effettivamente stati, e le fa menzionare fin troppo presto Freud, tra lo scetticismo generale. E nella stiva viene caricata la fiammante Renault (quella sì realmente affondata la notte tra il 14 e il 15 aprile del 1912), su cui finiranno per fare l’amore Rose e Jack nella loro fuga, l’ennesima del cinema cameroniano.

    Il film inoltre si pone da un lato come luogo di performance, palcoscenico più che set, costruzione, racconto e mostra sul “fare cinema”, dall’altro come ennesima svolta nel campo degli effetti speciali, inventando nuove tecniche e diventando occasione di sperimentazione, come quasi tutte le produzioni del cineasta canadese: il tentacolo d’acqua di Abyss, il personaggio liquido e in continua, inarrestabile mutazione di Terminator 2, le centinaia di creazioni al computer che riproducono e animano la “nave dei sogni” e i suoi disgraziati passeggeri spostano di volta in volta il confine della possibilità cinematografica e impongono di considerare la nuova identità fluida e diffusa in arrivo con il cinema digitale.

  • Appunti sparsi sul cinema di James Cameron (2)

    Lindsey annega nel batiscafo di "Abyss"

    Quello di James Cameron è un cinema che vive di gigantismo, di architetture e macchine enormi rispetto alle dimensioni dello spazio scenico abitabile. Dal processore atmosferico di Aliens agli autosnodati dei due Terminator, fino al “gigante dei mari” per antonomasia di Titanic, tutto è eccessivo e deborda dallo schermo.

    Le produzioni, i set e i relativi costi di ogni impresa del regista finiscono regolarmente per superare ogni record (e ogni budget preventivato, per la preoccupazione e in alcuni casi la disperazione delle case cinematografiche).

    La scenografia cameroniana attinge dall’immaginario delle immense distese dell’”on the road”, dal titanismo del filone catastrofico, ma anche dagli ambienti di Stanley Kubrick o di Michelangelo Antonioni, dove i personaggi appaiono dispersi nelle proporzioni di un mondo (e, parallelamente, di un universo sociale) che si estende, sovrasta, che sfugge a ogni possibilità di controllo.

    Ma se da una parte le sale e i corridoi dell’Overlook Hotel si allontanano dall’umano nella loro immensità, dall’altra i cunicoli di Hadley’s Hope, i corridoi allagati del Titanic, i sommergibili di Abyss si stringono sugli attori, convergono in una geometria claustrofobica che ha l’effetto di comprimere azioni e inquadrature.

    Anche dove c’è lo spazio per volare il mezzo preferito è l’elicottero, macchina volante urbana, che può restare quasi fermo. Persino l’aereo utilizzato in True Lies è un Harrier, scelto proprio perché può muoversi verticalmente in modo simile appunto all’elicottero; il finale di questo film, che pure ha a disposizione il cielo di una città, si risolve nei pochi metri quadri disponibili sulla superficie e nella carlinga del caccia.

    Abyss è poi una vera e propria progressione nella claustrofobia, nell’unico film di Cameron dove il tema del viaggio è affrontato non come una “fuga da” (i suoi personaggi sono sempre o inseguitori o inseguiti) ma come un “andare verso”, anche se il percorso è una discesa obbligata senza apparente via d’uscita.

    Da un sommergibile nucleare che affonda si passa a una base sottomarina, dove i corridoi sono poco più di tubi imbullonati l’uno all’altro, a stretti batiscafi che si allagano, a piccole botole d’ingresso (chiuse!). Ovunque si combatte con la pressione che schiaccia, con l’ossigeno che finisce, con i portelli e gli oblò che implodono.

    Si arriva a scoprire che l’unica via di salvezza è proprio lasciarsi annegare, ora nella speranza di essere rianimati, ora nel chiudersi in una tuta da palombaro che viene riempita di un liquido speciale; è una miscela che permette di respirare annegando, surrogato ad alta tecnologia del liquido roseo “che tutti abbiamo respirato prima di nascere”.

    Dalla claustrofobia di Cameron si rinasce (il tema del parto, fisico o metaforico, è un’altra costante nella sua filmografia) e si rinasce mutati, a livello fisico, mentale, sociale: l’equipaggio del Deep Core supera la necessità della decompressione, nell’intervallo tra i due Terminator Sarah Connors smette i panni post adolescenziali per accumulare muscoli e capacità combattive, dopo il Titanic una nuova Rose Dawson sceglierà il suo posto nella società del 1900.

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