Categoria: Musica

  • The Dune Sketchbook di Hans Zimmer: il suono del deserto

    The Dune Sketchbook di Hans Zimmer: il suono del deserto

    Hans Zimmer è noto per il suo approccio innovativo alla musica da film, ma con The Dune Sketchbook ha realizzato qualcosa di diverso: una collezione di tracce che vanno oltre la semplice colonna sonora, esplorando in modo più libero e sperimentale l’universo di possibilità sonore di Dune. Questo disco, pubblicato separatamente dalla colonna sonora ufficiale del film di Denis Villeneuve, si avvicina all’estetica del rock progressivo, rendendolo un’opera di grande interesse per gli appassionati di musica oltre che per i cinefili.

    Mentre la colonna sonora ufficiale di Dune accompagna il film con una struttura più convenzionale, The Dune Sketchbook è un viaggio autonomo. Composto da tracce più lunghe, alcune delle quali superano i dieci minuti, l’album si avvicina alla struttura tipica di molte suite progressive. Qui Zimmer si prende la libertà di sviluppare le sue idee musicali senza la necessità di aderire rigidamente ai tempi narrativi imposti dal montaggio cinematografico.

    Il sound si distingue per la sua atmosfera intensa, l’uso di strumenti esotici e voci evocative che sembrano emergere da un tempo e uno spazio remoti. L’elettronica pulsante si mescola a strumenti acustici e percussioni tribali, creando un paesaggio sonoro tanto alieno quanto affascinante. Questo approccio richiama il modo in cui le band prog degli anni ‘70 costruivano i loro mondi sonori, a volte influenzati dalla fantascienza e dall’esplorazione interiore.

    Il rock progressivo ha sempre avuto un’affinità con le narrazioni epiche e con la fantascienza. Del resto, la colonna sonora della prima trasposizione cinematografica del romanzo di Frank Herbert fu composta dal gruppo rock dei Toto. Sebbene l’approccio dei Toto fosse più vicino al rock sinfonico, anch’esso mostrava una certa inclinazione progressive. Zimmer, invece, adotta un approccio più sperimentale, basato sulla costruzione di texture sonore piuttosto che su melodie tradizionali.

    Se The Dune Sketchbook è una sorta di esperimento musicale libero, la colonna sonora ufficiale di Dune è più orientata a supportare la narrazione cinematografica. Qui le tracce sono più brevi e funzionali, anche se mantengono molte delle caratteristiche timbriche ed evocative dello Sketchbook. Alcuni temi ricorrenti si ritrovano in entrambe le versioni, ma nell’album principale sono più compressi e adattati alle esigenze del film.

    The Dune Sketchbook costituisce un mondo musicale indipendente e si presta a un ascolto più immersivo e meno immediato svincolato dalle immagini dei film. In un certo senso, il rapporto tra i due album è simile a quello tra un concept album prog e un disco più orientato al singolo: il primo è un’esperienza d’ascolto che richiede tempo e attenzione, il secondo è più diretto ed efficace nel suo scopo.

  • Canzoni di un mondo perduto: i Cure oltre la nostalgia

    Canzoni di un mondo perduto: i Cure oltre la nostalgia

    Dopo sedici anni di silenzio discografico, i Cure sono tornati con Songs of a Lost World, un album che segna un punto di svolta nella carriera della band, un lavoro intimo e profondo che affonda le sue radici nella riflessione sul passare del tempo. Ma, come accade spesso con il gruppo di Robert Smith, il ritorno è ben più di una semplice pubblicazione musicale: è un viaggio emotivo, una catarsi, una riflessione sul nostro mondo e sulla sua inevitabile trasformazione.

    Songs of a Lost World non è un disco che parla al passato, ma un lavoro che riflette sulla solitudine e sulla perdita. La morte di alcuni familiari di Robert Smith, tra cui suo fratello, ha influenzato pesantemente le tematiche dell’album, che esplora la paura della mortalità, della solitudine e dell’ineluttabilità del tempo.

    Il sound di Songs of a Lost World è essenziale e diretto, con brani che spaziano dalla dolcezza malinconica di I Can Never Say Goodbye alla potenza abrasiva di Drone:Nodrone. Nonostante il ritmo spesso glaciale e le tracce lunghe, l’album non soffre del problema della mancanza di coesione che aveva afflitto i suoi predecessori. La magia di Songs of a Lost World sta proprio nella sua capacità di avere una consistenza densa e ponderata.

    Il singolo di apertura, Alone, è forse l’esempio più evidente di questa nuova direzione. Con un’introduzione strumentale di oltre tre minuti, quanto di più lontano ci possa essere da questo tempo di singoli da rapido consumo in streaming, il brano trascina l’ascoltatore in un’atmosfera di solitudine e desolazione, risvegliando emozioni profonde. La potenza del grido di Smith (“This is the end of every song that we sing”) è l’inizio di un viaggio che non solo riecheggia il passato della band, ma lo reinventa.

    Molti dei brani di Songs of a Lost World sono nati dal vivo dei tour, come Alone, A Fragile Thing e And Nothing Is Forever, il che ha contribuito a dare loro una nuova forma, più matura e consapevole. La canzone I Can Never Say Goodbye, scritta in memoria del fratello di Smith, è una delle più emozionanti del disco. La sua lunga intro strumentale racconta l’ultimo incontro con la persona amata, in un’atmosfera di commozione che traspare anche nelle esibizioni dal vivo di Smith, spesso visibilmente provato.

    L’album è un ritorno a sonorità dense e atmosferiche, simili a quelle di Disintegration e Pornography. Brani come Drone:Nodrone e Warsong portano l’ascoltatore in un vortice di feedback e distorsioni, evocando al contempo riflessioni sulla società contemporanea nel suo clima di incertezza e conflitto.

    Eppure, la luce non è completamente assente. La copertina dell’album, con il volto di pietra che emerge come un asteroide da un nero spazio, simboleggia proprio quella luce che nonostante tutto riesce a brillare, come una stella distante ma ben visibile; un simbolo del mondo perduto eppure, in qualche modo, ancora presente.

    Robert Smith continua a ostentare il suo trucco iconico, che è diventato un marchio di fabbrica del suo personaggio. Il suo eyeliner nero, spesso impreciso e sbavato, richiama immediatamente l’immagine di un sopravvissuto, un individuo che ha attraversato le tempeste della vita e, pur non riuscendo a celare completamente il suo dolore, ne fa una forma di resistenza visibile. Il trucco non è solo un atto estetico, ma una dichiarazione di sopravvivenza emotiva, una testimonianza di chi ha lottato contro l’oscurità e ha scelto di non nascondere le sue cicatrici, anzi, di renderle parte della propria identità.

    C’è una certa analogia con il personaggio del Joker interpretato da Heath Ledger: entrambi incarnano la figura del sopravvissuto, colui che è stato segnato dal mondo e dalle proprie esperienze, e che ha scelto di vivere nella loro evidenza, piuttosto che celarle. Il trucco sbavato di Smith non è perfetto e proprio questa imperfezione lo rende ancora più autentico. La sua figura, così tragica e al contempo ironica, diventa un simbolo di resilienza, di qualcuno che ha affrontato le proprie ombre e le ha fatte proprie senza mai scendere a compromessi con l’immagine ideale o la perfezione.

    Smith ha saputo trasformare ogni cicatrice in arte, in musica, in una continua esplorazione della sua umanità. Il suo trucco, lontano dall’essere solo un vezzo estetico, diventa una metafora di questa lotta: la sua immagine di “eccentrico” è la sua armatura, ma è anche il suo punto di forza, quello che gli consente di continuare a brillare nel buio e a essere un faro per chi si riconosce nel suo spirito di resistenza. È il simbolo di un uomo che ha deciso di non nascondere le sue vulnerabilità, ma di esibirle, mostrando al mondo che essere “imperfetti” è forse la forma più autentica di bellezza.

    Con Songs of a Lost World, i Cure non solo celebrano il loro passato, ma aprono una nuova fase della loro carriera. Non c’è nostalgia fine a se stessa, ma una riflessione sincera su ciò che resta e su come si affrontano le sfide dell’invecchiare.

  • Alive 2007: il bollente suono dei robot

    Alive 2007: il bollente suono dei robot

    Esattamente quindici anni fa usciva Alive 2007, secondo album dal vivo dei Daft Punk. Il disco è una fotografia di un istante della storia del gruppo all’apice della sua esperienza dance elettronica e subito prima della svolta/omaggio disco/r&b di Random Access Memories.

    Concepito come un lungo medley senza interruzioni di greatest hits del duo francese, l’album celebra l’intercambiabilità del campionamento sonoro, la sua possibilità di essere usato e ri-usato in infinite combinazioni per creare brani ogni volta diversi eppure perfettamente riconoscibili.

    I Daft Punk picchiano duro reiterando un quattro/quarti che non ammette via di uscita o pause che non siano quelle in cui persino il bass drum si ferma per fare posto a sample sonori introduttivi, incipit che diventano inni per un pubblico scatenato. Sì, perché la musica apparentemente fredda e calcolata al computer (non si suonano strumenti ma software musicali) scalda la folla accorsa per assistere a un rito collettivo, un rave emozionale fatto di pulsazioni ipnotiche, vertiginosi vocoder, wall of sound in cui si fondono effetti sonori solo ancora vagamente riconducibili alle distorsioni di phaser e flanger, ma soprattutto momenti di esaltazione collettiva in cui un brano viene a galla, interrompendo bruscamente il precedente o emergendone lentamente, corrodendone a poco a poco la struttura con l’infiltrazione di nuove note.

    Non è house, non è elettronica ma puro rock di rottura, alla faccia dello stile “commerciale”, che non si limita a un omaggio (su tutti gli intramontabili Kraftwerk, ma anche Orchestral Manoeuvres in the Dark o gli Chic) ma pesca a piene mani da musica e storia mediale, celebrando al tempo stesso la riproducibilità tecnica dell’arte ma anche il suo essere unica nella gamma infinita di possibili variazioni sonore e remix di poche battute.

    Quelli raccontati dai Daft Punk non sono i sogni di robot che anelano a diventare umani (vedi il loro poco riuscito film Electroma) ma di umani affascinati dalla tecnologia che impregna le loro vite e dal calore che se ne sprigiona.

  • Ergot Project: l’onda oscura dei Beatles

    Ergot Project Beat-Less

    Stanley Kubrick diceva che per fare un film non era necessario scrivere una nuova storia, bastava pescare nella letteratura; cosa che regolarmente il regista faceva, utilizzando romanzi e racconti come solida base per proiettare sullo schermo non l’idea originale dello scrittore bensì la sua.

    In questa chiave va letto Beat-Less, album di esordio del collettivo artistico Ergot Project. Racchiuso in una ricercata grafica steampunk c’è un esperimento che utilizza la musica dei Beatles per raccontare una visione musicale, esperimento apparentemente affidato all’anarchia ma in realtà attentamente diretto e orchestrato, dove nulla è affidato al caso.

    Sono pezzi che a volte stravolgono l’impianto originale, invertendo o sopprimendo strofe e ritornelli, cambiando melodie, eliminando riff e giri caratterizzanti. La musica esce filtrata attraverso il setaccio dell’industrial e del trip hop più cupo, da cui emergono improvvise e inaspettate citazioni.

    Così Tomorrow Never Knows pare uscire da Mezzanine dei Massive Attack, Revolution rallenta in una lullaby dei Cure, una dilatata Helter Skelter allunga i Nine Inch Nails sul ritmatissimo monologo del criminale Charles Manson, che proprio da questo brano faceva discendere i suoi appelli al caos e alla distruzione. Nella versione degli Ergot Project i quattro ragazzi di Liverpool passano da cantori della felicità a motore dell’inquietudine, di speranze disilluse e di nuove luci.

  • Memorie di un dischivendolo

    Disco Club

    Tutto ebbe inizio tra dischi volanti, cicogne e un concerto di Stan Getz.

    Giancarlo Balduzzi è un tossicomane di lungo corso. Di più: è un tossicomane passato dal consumo allo spaccio. Spaccia ormai da quasi trent’anni a buona parte degli abitanti di Genova. Prima lavorava in banca, il che almeno in parte spiega perché si sia dato a un tal commercio. Potete star tranquilli con lui, è fidato: spaccia praticamente solo roba che conosce bene e che gli piace. Se non ha qualcosa è perché si tratta di roba schifosa che fareste meglio a non comprare; anzi, fareste bene a non chiedergliela nemmeno, dato che la cosa potrebbe valervi un’espulsione.

    I suoi clienti sono ovviamente affetti dalla medesima dipendenza e si fidano ciecamente dei suoi consigli, anche se ogni tanto scoppiano vive discussioni del genere “è meglio questo!”, “no, questo!”. Ma si tratta di diatribe tra amici, che solo raramente sfociano nella rissa aperta.

    Se cercate roba comune, quella che hanno tutti, non andate da lui, perché non ce l’ha. Del resto, quelli che la tenevano hanno chiuso bottega uno dopo l’altro, mentre lui prospera. Anzi, assume i dipendenti della ex concorrenza.

    Ieri c’è stato l’incontro con l’alieno, oggi con Dracula.

    I suoi assidui frequentatori sono a volte davvero bizzarri, con strane fisse e manie, comportamenti al limite della psicopatologia; ognuno ha i suoi gusti, ma nessuno mette in dubbio quelli di Gian, non a lungo, almeno, e non senza poi ammetttersi di essersi sbagliati. Quando gli arriva un pacco di roba nuova li trovate tutti lì a frugare cercando il meglio o la curiosità. Naturalmente Gian è la disperazione di genitori e coniugi dei suoi migliori clienti, dato i danni al bilancio familiare causati dalla tossicomania. A ogni modo la roba che vende Gian, oltre a essere legale, è tra la più sana disponibile: non crea danni alla salute, nemmeno quelli da fumo passivo. Al limite alle orecchie, ma quello dipende dal volume che ognuno preferisce, e quelli, si sa, son gusti.

    Perché Gian spaccia dischi: cd, vinili, nuovi, usati, rock, blues, jazz, indie, non importa, purché sia buona musica. Solo sotto Natale fa qualche rara eccezione, concessioni magnanime ai primitivi gusti del volgo, perché il mercato è quello che è ma soprattutto perché a Natale sono tutti più buoni e quindi anche lui. Se in vetrina compare un disco troppo commerciale, ovvero qualcosa conosciuto a più dello 0,2% della popolazione, subito i suoi clienti si preoccupano e si chiedono se sia stia male o se addirittura non sia improvvisamente deceduto.

    Rispunta in negozio Quasimodo, non lo vedevo da mesi. Il padre ci ha proibito di vendergli ancora dei dischi…

    Il suo negozio, Disco Club, è una vera e propria istituzione a Genova, visitato e quindi benedetto anche da Nick Hornby. Tra poco farà cinquant’anni (il negozio, non Hornby), che non sono pochi, soprattutto considerando la crisi e i cambiamenti del mercato musicale, che negli anni hanno visto chiudere tanti negozi. Quando lì vicino aveva aperto la Fnac, qualcuno aveva chiesto a Gian “e ora come farai?”. Gian ha semplicemente aspettato. La Fnac ha chiuso e due dei suoi dipendenti ora lavorano a Disco Club.

    Da qualche tempo Gian tiene un diario su Facebook, dove ogni sera annota meticolosamente gli avvenimenti della giornata. Il primo anno del diario è diventato da poco un libro autoprodotto, un successo editoriale che ha venduto centinaia di copie in meno di tre mesi. Nel diario compare tutta quella misteriosa (e un po’ preoccupante) fauna umana che frequenta il nogozio di Gian, una carrellata di personaggi a volte inquietanti, a volte grotteschi, ma mai ridotti a macchiette. Far parte di questa corte dei miracoli è un privilegio; essere citati nel diario addirittura un onore.

    Quello svolto da Disco Club è un servizio sociale e culturale, di educazione e diffusione del sapere: i giovani che entrano nel negozio ne escono cambiati: giungono in cerca di un disco dell’ultima star di un talent show della tv e se ne vanno con Led Zeppelin, John Coltrane, King Crimson. Il diario è una testimonianza anche di questo servizio: Gian raccoglie gente per salvarla dalla barbarie musicale, dalla becerità di un mercato che si fa ogni giorno più misero e ignorante. E’ uno sporco lavoro, ma qualcuno dovrà pur farlo.

  • Nearly God: Tricky e il non finito

    Nearly God

    Nel 1996 esce Nearly God, il secondo album di Adrian Thaws, meglio noto come Tricky; in realtà, a voler essere pignoli, il suo secondo album sarebbe Pre-Millennium Tension, pubblicato qualche mese dopo, dato che Nearly God è una specie di progetto parallelo, uscito con il marchio omonimo invece del nome del musicista di Bristol.

    Reduce dall’esordio di Maxinquaye, a tutt’oggi il suo disco di maggior successo, Tricky sceglie di non assecondare le aspettative del pubblico e si dedica a una ricerca personale. Più che un disco, Nearly God è uno sketchbook che raccoglie appunti, idee e riflessioni. I brani sembrano spesso abbozzi non completati; a volte iniziano in medias res e vengono terminati invece di avere un vero e proprio finale. La sensazione è quella di assistere a prove di registrazione o di ascoltare alternate takes.

    Nearly God

    Tricky si immerge negli abissi delle possibilità del trip-hop, esplorandone i fondali e riportando a galla frammenti di testi e campioni sonori abbandonati, trasformandoli in un disco di pura sperimentazione. I loop ossessivi caratteristici del genere diventano basi fondamentali, suoni ipnotici che si ripetono all’infinito, ripresi tra un pezzo e l’altro come raccordi invisibili che rimandano ai concept album. È su questi tappeti sonori che si muovono le voci, quasi sempre duetti, quasi a cercare compagnia mentre recitano i loro mantra di confessioni solitarie.

    In un disco dalle sonorità cupe come non mai, persino più del successivo Pre-Millennium Tension, e che si apre con Tattoo, cover di Siouxsie and the Banshees, Tricky mormora versi con la sua usuale voce profonda e graffiante; Björk in Keep Your Mouth Shut cita You’ve Been Flirting Again dal suo secondo disco, Post, non a caso coprodotto proprio da Tricky, che è stato suo compagno in quegli anni. La potenza jazzy di Alison Moyet in Make A Change contrasta con i sussurri, in un soul in 5/4 che pare sospeso nel nulla, mentre Martina Topley-Bird declama Poems insieme a Terry Hall degli Specials. Coronano il tutto Neneh Cherry con Together Now, che compare anche nel suo disco da solista Man.

  • Sotto la pioggia verso Tannhauser: L’uomo trasparente di Maurizio Di Tollo

    Maurizio Di Tollo - L'uomo trasparente

    E’ bello sapere che Maurizio “Mau” Di Tollo, che tra le numerose esperienze è stato anche batterista della Maschera di cera, sta lavorando a un nuovo disco da solista. Sono già passati due anni dal suo primo album, L’uomo trasparente, affascinante, ricco di suggestioni, malinconico e speranzoso allo stesso tempo.

    Mau scrive, arrangia, canta, suona più strumenti, accompagnato da musicisti che non sono gregari ma amici e compagni di viaggio, che arrichiscono il pensiero dell’autore con i loro, a partire dal direttore artistico e bassista del disco Christian Marras. Ne escono poesie in musica, melodie galleggianti su infiniti mari di suoni, con echi di synth che arrivano dallo spazio profondo, dalle porte di Tannhauser, dalla pioggia che cade e dalla casa di un solitario cacciatore di androidi.

    Maurizio Di Tollo

    E’ tra una goccia di pioggia e l’altra che arrivano le voci, ora decise e potenti, ora sospese e mormoranti, come perse nei ricordi, mentre melanconici carillon e pianoforti sospesi nel vuoto vengono travolti da impetuose e lancinanti chitarre e percussioni. Tra i suoni di L’uomo trasparente si sentono tracce di Mike Oldfield e di Peter Gabriel, fino al David Sylvian più sperimentale; suoni curati nei dettagli, come anche la grafica del booklet che accompagna il disco, elaborata da Ksenja Laginja, che aggiunge il suo tocco di artista dark.

    Per quanto personale e intimista, Mau non scrive per se stesso ma per chi lo ascolta, per raccontare di un viaggio e del suo viaggiatore, per condividerne esperienze e riflessioni. L’uomo trasparente è ricco di parole e di suoni ma soprattutto di vita e di voglia di comunicare.

  • Il suono del Cyberpunk: Ghost in the Shell Stand Alone Complex

    Ghost in the Shell: Stand Alone Complex

    Il Cyberpunk non è un genere musicale: può aver ispirato estetiche e sperimentazioni ma difficilmente si può applicare l’etichetta “cyberpunk” ad artisti o album.

    Si può invece esplorare il vasto panorama delle musiche che compaiono nei prodotti cyberpunk, in quanto citate nei romanzi e parte dell’atmosfera della storia o come colonne sonore di film e produzioni tv.

    Ghost in the Shell: Stand Alone Complex OST

    Ottimo esempio del secondo gruppo è la colonna sonora di Ghost in the Shell: Stand Alone Complex. Scritta da Yoko Kanno, già compositrice per anime come I cieli di Escaflowne e Cowboy Bebop, la musica mescola abilmente atmosfere e stili completamente diversi tra loro. Se i viaggi interplanetari di Cowboy Bebop erano accompagnati dal country-jazz, la Terra del 2030 di Ghost in the Shell: SAC echeggia di influenze multiculturali, con brani hip-hop, fusion, metal, dance, in un melting pop sonoro che fa da contrappunto, ora drammatico e diegetico, ora ironico e divertito, alle avventure dei membri della Sezione 9 e alla loro lotta contro cyborg impazziti, criminali informatici, spie industriali, terroristi ipertecnoligizzati.

    Ghost in the Shell: Stand Alone Complex OST

    Testi in più lingue, tra cui anche russo e italiano, strumenti tradizionali frammisti a sperimentazioni elettroniche: ne esce un wall of sound compatto e variegato, una esplorazione della musica dei nostri giorni proiettata in modo divinatorio verso un ignoto futuro. Così come la serie anime diretta da Kenji Kamiyama affronta temi come il postumano, il confine tra biologico e meccanico, la perdita di identità, allo stesso modo Yoko Kanno colora le partiture di limiti da superare ed eccessi, al confine dell’indistinguibile tra generi musicali attuali e futuri, tra suoni umani e suoni delle macchine.

    La soundtrack è pubblicata in diversi album e comprende buona parte dei brani delle due serie e del successivo film tv. Da segnalare in particolare, oltre alle due sigle di apertura cantate dalla russa Origa, Inner Universe e Rise, la metallica Run Rabbit Junk, Where Does This Ocean Go che ricorda la Björk di Post, la ballad Some Other Time, I Can’t Be Cool cantata da Ilaria Graziano, la funkeggiante GET9.

  • Marilyn Manson, o il fascino grottesco della borghesia

    Marilyn Manson

    Il giovane studente Brian Warner cerca più volte di farsi espellere dalla Heritage Christian School, che odia, ma non ha fatto i conti con i sani princìpi del sistema scolastico privato: la famiglia Warner infatti paga regolarmente la retta; ogni provocazione di Brian, per quanto spinta, gli guadagna solo qualche misero giorno di sospensione. Con il tempo Brian metabolizza il concetto: confezionare e vendere la provocazione per i figli di una borghesia ottusa e bigotta.

    A vent’anni assume il nome d’arte “maledetto” di Marilyn Manson e fonda il suo gruppo rock, con l’ottimo Twiggy Ramirez al basso e soprattutto l’accorta supervisione di Trent Reznor, che inietta nella band il sound dei Nine Inch Nails.

    Marilyn Manson si costruisce una carriera basata sul suono e sull’immagine: il primo mischia metal, industrial e grunge, suggestioni pop, punk e dark; la seconda dipinge un mutante per tutte le occasioni, con arti smisurati, gli occhi dai colori diversi e impossibili, la pelle anemica di un vampiro, androgino o asessuato, vestiti dai colori chiassosi o stracci corrosi da futuri fallout nucleari.

    Manson provoca con un linguaggio forte, con dichiarazioni a volte contraddittorie sull’uso delle droghe, sulla violenza e sulle armi, dichiarazioni così dirette a stupire da rivelarsi spesso solo battute affrettate e inconcludenti. Ma quando abbandona la figura del “maledetto a tutti i costi” è capace anche di osservazioni lucide e assennate, come quando Michael Moore lo intervista nel suo film Bowling a Columbine, dopo che, a seguito del massacro della Columbine High School, diversi gruppi dei soliti benpensanti se la sono presa con i “messaggi violenti” del “rock satanico” e non, stranamente, contro la cultura USA delle libere armi.

    La trilogia centrale di Manson è la sua produzione più interessante, sorta di lungo concept album in tre puntate, accompagnato da videoclip ai confini dell’horror, del grand guignol teatrale o della fantascienza, non innovativi ma sempre ben curati, come nel caso di The Dope Show, della dissacrante Disposable Teens o della cover sofferente e disperata di Sweet Dreams degli Eurythmics.

    In Antichrist Superstar il suono sporco e duro celebra la nascita e mutazione di un rocker, Disintegrator, che passa da verme apatico ad angelo sterminatore; ossessioni paranoiche, chitarre distorte che si fondono con sintetizzatori rochi e ritmiche ossessive. Con Mechanical Animals l’angelo diventa un alieno che tenta di redimere il mondo, in uno stile glam rock che richiama un altro alieno, il David Bowie dell’Uomo che cadde sulla Terra; l’album, dai suoni fastosi e magniloquenti, trova in se stesso la sua nemesi, con gli attacchi ai “sistemi” delle droghe e dell’industria discografica. Il terzo disco, Holy Wood (In the Shadow of the Valley of Death), è la storia di una sconfitta: l’angelo Manson appare crocefisso e putrefatto, messia abbandonato dal mondo per cui ha cercato di vivere e che ora maledice. Per bizzarra coincidenza, è l’album di minor successo della band, coinvolta nel vortice delle accuse mediatiche post Columbine. La musica si ripiega su se stessa, tornando a essere quella cupa degli esordi alla “no future”.

    Alla trilogia segue poco di interessante: Marilyn Manson, stanco o a corto di idee, si accontenta di innocue celebrazioni del grottesco e della decadenza del capitalismo e dipinge acquarelli, non appare più in grado di provocare e offendere più, se non al massimo qualche teocon particolarmente stupido. In attesa di una resurrezione, l’alieno pare avviato a una deriva verso il pop più becero e commerciale. Se oggi ci tocca sentire Lady Gaga mentre facciamo la spesa al supermercato forse è anche colpa sua.

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