• Memorie di un dischivendolo

    Disco Club

    Tutto ebbe inizio tra dischi volanti, cicogne e un concerto di Stan Getz.

    Giancarlo Balduzzi è un tossicomane di lungo corso. Di più: è un tossicomane passato dal consumo allo spaccio. Spaccia ormai da quasi trent’anni a buona parte degli abitanti di Genova. Prima lavorava in banca, il che almeno in parte spiega perché si sia dato a un tal commercio. Potete star tranquilli con lui, è fidato: spaccia praticamente solo roba che conosce bene e che gli piace. Se non ha qualcosa è perché si tratta di roba schifosa che fareste meglio a non comprare; anzi, fareste bene a non chiedergliela nemmeno, dato che la cosa potrebbe valervi un’espulsione.

    I suoi clienti sono ovviamente affetti dalla medesima dipendenza e si fidano ciecamente dei suoi consigli, anche se ogni tanto scoppiano vive discussioni del genere “è meglio questo!”, “no, questo!”. Ma si tratta di diatribe tra amici, che solo raramente sfociano nella rissa aperta.

    Se cercate roba comune, quella che hanno tutti, non andate da lui, perché non ce l’ha. Del resto, quelli che la tenevano hanno chiuso bottega uno dopo l’altro, mentre lui prospera. Anzi, assume i dipendenti della ex concorrenza.

    Ieri c’è stato l’incontro con l’alieno, oggi con Dracula.

    I suoi assidui frequentatori sono a volte davvero bizzarri, con strane fisse e manie, comportamenti al limite della psicopatologia; ognuno ha i suoi gusti, ma nessuno mette in dubbio quelli di Gian, non a lungo, almeno, e non senza poi ammetttersi di essersi sbagliati. Quando gli arriva un pacco di roba nuova li trovate tutti lì a frugare cercando il meglio o la curiosità. Naturalmente Gian è la disperazione di genitori e coniugi dei suoi migliori clienti, dato i danni al bilancio familiare causati dalla tossicomania. A ogni modo la roba che vende Gian, oltre a essere legale, è tra la più sana disponibile: non crea danni alla salute, nemmeno quelli da fumo passivo. Al limite alle orecchie, ma quello dipende dal volume che ognuno preferisce, e quelli, si sa, son gusti.

    Perché Gian spaccia dischi: cd, vinili, nuovi, usati, rock, blues, jazz, indie, non importa, purché sia buona musica. Solo sotto Natale fa qualche rara eccezione, concessioni magnanime ai primitivi gusti del volgo, perché il mercato è quello che è ma soprattutto perché a Natale sono tutti più buoni e quindi anche lui. Se in vetrina compare un disco troppo commerciale, ovvero qualcosa conosciuto a più dello 0,2% della popolazione, subito i suoi clienti si preoccupano e si chiedono se sia stia male o se addirittura non sia improvvisamente deceduto.

    Rispunta in negozio Quasimodo, non lo vedevo da mesi. Il padre ci ha proibito di vendergli ancora dei dischi…

    Il suo negozio, Disco Club, è una vera e propria istituzione a Genova, visitato e quindi benedetto anche da Nick Hornby. Tra poco farà cinquant’anni (il negozio, non Hornby), che non sono pochi, soprattutto considerando la crisi e i cambiamenti del mercato musicale, che negli anni hanno visto chiudere tanti negozi. Quando lì vicino aveva aperto la Fnac, qualcuno aveva chiesto a Gian “e ora come farai?”. Gian ha semplicemente aspettato. La Fnac ha chiuso e due dei suoi dipendenti ora lavorano a Disco Club.

    Da qualche tempo Gian tiene un diario su Facebook, dove ogni sera annota meticolosamente gli avvenimenti della giornata. Il primo anno del diario è diventato da poco un libro autoprodotto, un successo editoriale che ha venduto centinaia di copie in meno di tre mesi. Nel diario compare tutta quella misteriosa (e un po’ preoccupante) fauna umana che frequenta il nogozio di Gian, una carrellata di personaggi a volte inquietanti, a volte grotteschi, ma mai ridotti a macchiette. Far parte di questa corte dei miracoli è un privilegio; essere citati nel diario addirittura un onore.

    Quello svolto da Disco Club è un servizio sociale e culturale, di educazione e diffusione del sapere: i giovani che entrano nel negozio ne escono cambiati: giungono in cerca di un disco dell’ultima star di un talent show della tv e se ne vanno con Led Zeppelin, John Coltrane, King Crimson. Il diario è una testimonianza anche di questo servizio: Gian raccoglie gente per salvarla dalla barbarie musicale, dalla becerità di un mercato che si fa ogni giorno più misero e ignorante. E’ uno sporco lavoro, ma qualcuno dovrà pur farlo.

  • Nearly God: Tricky e il non finito

    Nearly God

    Nel 1996 esce Nearly God, il secondo album di Adrian Thaws, meglio noto come Tricky; in realtà, a voler essere pignoli, il suo secondo album sarebbe Pre-Millennium Tension, pubblicato qualche mese dopo, dato che Nearly God è una specie di progetto parallelo, uscito con il marchio omonimo invece del nome del musicista di Bristol.

    Reduce dall’esordio di Maxinquaye, a tutt’oggi il suo disco di maggior successo, Tricky sceglie di non assecondare le aspettative del pubblico e si dedica a una ricerca personale. Più che un disco, Nearly God è uno sketchbook che raccoglie appunti, idee e riflessioni. I brani sembrano spesso abbozzi non completati; a volte iniziano in medias res e vengono terminati invece di avere un vero e proprio finale. La sensazione è quella di assistere a prove di registrazione o di ascoltare alternate takes.

    Nearly God

    Tricky si immerge negli abissi delle possibilità del trip-hop, esplorandone i fondali e riportando a galla frammenti di testi e campioni sonori abbandonati, trasformandoli in un disco di pura sperimentazione. I loop ossessivi caratteristici del genere diventano basi fondamentali, suoni ipnotici che si ripetono all’infinito, ripresi tra un pezzo e l’altro come raccordi invisibili che rimandano ai concept album. È su questi tappeti sonori che si muovono le voci, quasi sempre duetti, quasi a cercare compagnia mentre recitano i loro mantra di confessioni solitarie.

    In un disco dalle sonorità cupe come non mai, persino più del successivo Pre-Millennium Tension, e che si apre con Tattoo, cover di Siouxsie and the Banshees, Tricky mormora versi con la sua usuale voce profonda e graffiante; Björk in Keep Your Mouth Shut cita You’ve Been Flirting Again dal suo secondo disco, Post, non a caso coprodotto proprio da Tricky, che è stato suo compagno in quegli anni. La potenza jazzy di Alison Moyet in Make A Change contrasta con i sussurri, in un soul in 5/4 che pare sospeso nel nulla, mentre Martina Topley-Bird declama Poems insieme a Terry Hall degli Specials. Coronano il tutto Neneh Cherry con Together Now, che compare anche nel suo disco da solista Man.

  • Il fantasma della democrazia

    Zombi

    Tra i vari motivi del successo nell’immaginario, non solo cinematografico, della figura del morto vivente c’è senza dubbio il suo essere, più o meno intenzionalmente, allegoria della massa, metafora evidente e accessibile in molti film. Il perturbante scaturisce dallo straniamento di una società che ci appare in qualche modo familiare (i morti sono nostri conoscenti, sono vestiti come noi, frequentano gli stessi luoghi) ma che viene portata al’estremo in quella che sembra l’unica possibile e definitiva evoluzione.

    I comportamenti degli zombi sono spesso rappresentativi di ciò che questi facevano da vivi, ma ripetuti in eterno e privati dell’obiettivo; se il gesto è una memoria della vita passata, la sua perpetuazione insensata diventa un’agghiacciante denuncia dell’inutilità già insita nell’originale, di qualcosa che era stato indotto ma che aveva puro senso sociale: ripetere l’azione non porta ad alcun cambiamento già in vita. In qualche maniera (ed è questa la denuncia più forte di George A. Romero) siamo già zombi da vivi.

    I morti viventi di Zombi ritornano al centro commerciale allo stesso modo in cui lo facevano da vivi: non è la fame di carne umana che li spinge, bensì la memoria del bisogno indotto del consumismo. Analogamente, il morto Bub del Giorno degli zombi perpetua un saluto militare perché parte dell’addestramento ricevuto quando era un soldato (e si “offende” quando non riceve risposta, quasi fosse una mancata gratificazione dell’ordine ben eseguito).

    Il giorno degli zombi

    Gli zombi divorano o contagiano i vivi senza alcun altro apparente scopo che l’istinto: ciò che mangiano non può nutrirli (almeno nella visione di Romero, ripresa e condivisa da altri registi epigoni); pur senza essere un conscio obiettivo, un mondo di zombi è in tendenza l’unico possibile risultato del loro comportamento. Il contagio rappresenta un desiderio inconscio di massificazione della società, il voler rendere tutto uguale annullando ogni sentimento o aspirazione che non siano quelli, privati di ogni senso, della maggioranza: la democrazia passa dal rappresentare le differenze a imporre l’omologazione proprio facendo scomparire ogni differenza. Gli zombi non combattono l’avversario: lo assimilano per annullarlo o renderlo uguale a loro. Spetta ai sopravvissuti la lotta per difendere il proprio diritto all’individualità, al pensiero libero, all’anticonformismo, a non diventare a loro volta parte della massa; facendolo si trovano ad affrontare i problemi di leadership, di scegliere chi deve guidare il gruppo e prendere le necessarie decisioni, di eleggere dei capi. La sopravvivenza diventa da difesa della carne a difesa del libero pensiero e, conseguentemente, della possibilità del cambiamento.

    Proprio nell’ineluttabile destino di diventare e far diventare maggioranza risiede parte dell’orrenda suggestione del morto vivente: la paura che una massa incapace di autogovernarsi determini le nostre decisioni e potenzialmente ci assimili; ancor peggio, il fantasma della democrazia zombi, in un mondo in cui i concetti di democrazia e maggioranza sono divenuti indistinti, non è tanto il pensiero unico quanto l’impossibilità di ogni unico pensiero.

  • Sotto la pioggia verso Tannhauser: L’uomo trasparente di Maurizio Di Tollo

    Maurizio Di Tollo - L'uomo trasparente

    E’ bello sapere che Maurizio “Mau” Di Tollo, che tra le numerose esperienze è stato anche batterista della Maschera di cera, sta lavorando a un nuovo disco da solista. Sono già passati due anni dal suo primo album, L’uomo trasparente, affascinante, ricco di suggestioni, malinconico e speranzoso allo stesso tempo.

    Mau scrive, arrangia, canta, suona più strumenti, accompagnato da musicisti che non sono gregari ma amici e compagni di viaggio, che arrichiscono il pensiero dell’autore con i loro, a partire dal direttore artistico e bassista del disco Christian Marras. Ne escono poesie in musica, melodie galleggianti su infiniti mari di suoni, con echi di synth che arrivano dallo spazio profondo, dalle porte di Tannhauser, dalla pioggia che cade e dalla casa di un solitario cacciatore di androidi.

    Maurizio Di Tollo

    E’ tra una goccia di pioggia e l’altra che arrivano le voci, ora decise e potenti, ora sospese e mormoranti, come perse nei ricordi, mentre melanconici carillon e pianoforti sospesi nel vuoto vengono travolti da impetuose e lancinanti chitarre e percussioni. Tra i suoni di L’uomo trasparente si sentono tracce di Mike Oldfield e di Peter Gabriel, fino al David Sylvian più sperimentale; suoni curati nei dettagli, come anche la grafica del booklet che accompagna il disco, elaborata da Ksenja Laginja, che aggiunge il suo tocco di artista dark.

    Per quanto personale e intimista, Mau non scrive per se stesso ma per chi lo ascolta, per raccontare di un viaggio e del suo viaggiatore, per condividerne esperienze e riflessioni. L’uomo trasparente è ricco di parole e di suoni ma soprattutto di vita e di voglia di comunicare.

  • “Non per odio ma per amore”: gli “Orfani” della Sergio Bonelli

    Orfani

    Sono colpevole: da tempo immemore ormai non frequentavo la scuderia Bonelli, dopo essere stato per più di dieci anni un accanito fan di Dylan Dog dalle sue origini e successivamente aver soltanto dato uno sguardo distratto qua e là a successive creazioni come Nathan Never e Gea. Nel frattempo Sergio Bonelli se n’èandato e il mondo nato con Tex è fortunatamente arrivato indenne alla sua terza generazione. Su segnalazione del buon Giovanni Boccia Artieri ho scoperto Orfani con cui sto piacevolmente espiando le mie colpe.

    Da quasi un anno in edicola, Orfani è il primo albo del nuovo corso bonelliano, che prevede tra l’altro il rilancio di Dylan Dog in versione rivisitata, con ricambio di personaggi, stili e tematiche.

    Che Orfani sia una svolta per la Bonelli si vede sin dai primi numeri: un diverso segno grafico, per di più completamente a colori, il passaggio da episodi autoconclusivi a serie annuali (per il momento ne sono previste almeno due), un linguaggio più attuale, mutuato dal cinema, il tutto unito a una violenza inusuale per la casa editrice milanese.

    Orfani

    L’ambientazione è post-apocalittica, dopo che una catastrofe planetaria, un’immensa luce che ha travolto e distrutto buona parte dell’Europa, ha precipitato l’umanità in un’epoca oscura. Il mondo futuro è quello cupo di film come Terminator o Appleseed, costellato da macerie, mancanza di ordine, spietate persecuzioni e ribellioni. Ambienti e tecnologie macinano gli ultimi trent’anni di immaginario cinematografico, fumettistico e videoludico americano e giapponese, con citazioni continue, dai bambini-cavie di Akira di Katsuhiro Otomo ai marine ipertecnologici di Aliens di James Cameron. La grafica spettacolare trasforma gli ambienti in monocolori accesi, ora rossi, ora blu, con il freddo dello spazio e delle città in rovina che si contrappone al calore delle armi e degli amori.

    Orfani

    La storia scritta da Roberto Recchioni si svolge su due livelli temporali, seguendo l’evoluzione dei personaggi da bambini superstiti del disastro, orfani appunto, e contemporaneamente da adulti trasformati in macchine da guerra, attraverso uno spaventoso addestramento militare e le successive missioni.

    I dialoghi sono serrati, senza battute superflue, come se non ci fosse spazio per altro, con punte di cinico umorismo che si contrappongono alla freddezza degli ordini.

    Orfani

    I protagonisti, il cui folto numero all’inizio può disorientare, vengono via via falcidiati in un crudele gioco a eliminazione alla dieci piccoli indiani, in cui i personaggi scompaiono uno dopo l’altro, quasi mai per mano nemica quanto piuttosto per i severi allenamenti e i sempre più accesi scontri interni tra eroi che si trasformano da amici in rivali. Sì, perché tra i tanti dubbi che Orfani insinua il più tremendo è la scelta sulle parti da prendere: immersi nella liquidità postmoderna, senza indirizzo o fonti di informazioni affidabili, i “piccoli e spaventati guerrieri” si trovano spesso a dover decidere con chi schierarsi, a stabilire dove stiano il bene e il male, abbandonati nella guida e negli affetti, avendo come unici strumenti di discrimine se stessi e la propria coscienza.

    Orfani

    I confini dei sentimenti, lealtà, amicizia, amore, vacillano e si sfaldano di continuo, in un gruppo in cui prevalgono di volta in volta la scelta individuale, la fedeltà a un’istituzione o a un’ideale; ognuno segue una propria idea di verità, faticosamente costruita in un’infanzia di orrore e di duro addestramento oltre i limiti dell’umano, che costringe menti e corpi a una continua, dolorosa e a volte letale mutazione.

    Il lettore, travolto dai continui cambi di campo dei singoli personaggi, si trova a dover scegliere a sua volta da che parte stare; in Orfani non vengono proposte chiare e definitive distinzioni tra buoni o cattivi: siamo noi a decidere quali siano gli eroi e quali le canaglie e spesso un improvviso ribaltamento ci costringe a rivedere le nostre posizioni; sembra sempre esserci un’accusa, un errore e parimenti una scusa e una giustificazione per tutti. Ognuno opera a modo suo per la salvezza dell’umanità, anche attraverso l’annientamento altrui o la propria autodistruzione; nonostante il desiderio di vendetta imperi, in genere è l’amore, e non l’odio, a guidare le loro azioni.

    La pubblicazione è stata preceduta, altro fatto inedito per la Bonelli, dalla pubblicazione di un numero zero, una raccolta di illustrazioni scaricabile on line in formato Pdf che potete trovare sul sito ufficiale. Il resto, vivamente consigliato, in edicola o come arretrati.

  • Il suono del Cyberpunk: Ghost in the Shell Stand Alone Complex

    Ghost in the Shell: Stand Alone Complex

    Il Cyberpunk non è un genere musicale: può aver ispirato estetiche e sperimentazioni ma difficilmente si può applicare l’etichetta “cyberpunk” ad artisti o album.

    Si può invece esplorare il vasto panorama delle musiche che compaiono nei prodotti cyberpunk, in quanto citate nei romanzi e parte dell’atmosfera della storia o come colonne sonore di film e produzioni tv.

    Ghost in the Shell: Stand Alone Complex OST

    Ottimo esempio del secondo gruppo è la colonna sonora di Ghost in the Shell: Stand Alone Complex. Scritta da Yoko Kanno, già compositrice per anime come I cieli di Escaflowne e Cowboy Bebop, la musica mescola abilmente atmosfere e stili completamente diversi tra loro. Se i viaggi interplanetari di Cowboy Bebop erano accompagnati dal country-jazz, la Terra del 2030 di Ghost in the Shell: SAC echeggia di influenze multiculturali, con brani hip-hop, fusion, metal, dance, in un melting pop sonoro che fa da contrappunto, ora drammatico e diegetico, ora ironico e divertito, alle avventure dei membri della Sezione 9 e alla loro lotta contro cyborg impazziti, criminali informatici, spie industriali, terroristi ipertecnoligizzati.

    Ghost in the Shell: Stand Alone Complex OST

    Testi in più lingue, tra cui anche russo e italiano, strumenti tradizionali frammisti a sperimentazioni elettroniche: ne esce un wall of sound compatto e variegato, una esplorazione della musica dei nostri giorni proiettata in modo divinatorio verso un ignoto futuro. Così come la serie anime diretta da Kenji Kamiyama affronta temi come il postumano, il confine tra biologico e meccanico, la perdita di identità, allo stesso modo Yoko Kanno colora le partiture di limiti da superare ed eccessi, al confine dell’indistinguibile tra generi musicali attuali e futuri, tra suoni umani e suoni delle macchine.

    La soundtrack è pubblicata in diversi album e comprende buona parte dei brani delle due serie e del successivo film tv. Da segnalare in particolare, oltre alle due sigle di apertura cantate dalla russa Origa, Inner Universe e Rise, la metallica Run Rabbit Junk, Where Does This Ocean Go che ricorda la Björk di Post, la ballad Some Other Time, I Can’t Be Cool cantata da Ilaria Graziano, la funkeggiante GET9.

  • Na-no na-no, professor Mork

    Robin Williams in Mork & Mindy

    In genere non mi piace scrivere necrologi ma nel caso di Robin Williams dovevo da tempo fare un ringraziamento personale e ormai purtroppo tardivo al suo meraviglioso Mork.

    Mork mi ha fatto divertire, ridere, pensare; ha fatto anche un’altra cosa per me ma l’ho capito solo anni dopo: Mork mi ha insegnato che cos’è il surrealismo. Meglio ancora: mi ha insegnato a essere surrealista. Prima ancora di conoscere i nomi di Breton, Dalì, Magritte, Prévert o Ernst, avevo imparato che cosa significasse guardare il mondo da surrealisti senza nemmeno sapere che esistesse un movimento surrealista. E tutto grazie a Mork.

    Il soffitto di un uomo è il pavimento di un altro uomo.

    Il personaggio di Mork è surreale già di per sé: beve con il dito; dorme appeso a testa in giù o con la testa infilata nel divano; invecchia al contrario, diventando bambino; arriva sulla Terra dal suo pianeta natale dentro a un uovo e da un uovo è nato, deposto da un padre che è un contagocce e che ha lasciato sua madre, una provetta, per due flaconi; tratta gli oggetti come esseri viventi, parlandoci; in alcuni casi questi gli rispondono pure.

    Robin Williams in Mork & Mindy

    Nei suoi tentativi di comprendere la società umana, Mork ne smonta e rimonta la struttura, disintegrandone e ricomponendone convenzioni, regole e linguaggio secondo la sua interpretazione aliena; potrebbe sembrare il punto di vista di un bambino che ignora la complessità, ma in realtà Mork inquadra il nostro mondo attraverso la conoscenza di un extraterrestre che ha studiato moltissime altre civiltà; quindi semmai a essere bizzarro non è lui ma l’essere umano al confronto dell’intero universo.

    Una banca può prestare denaro per comprare un battello o una grande macchina, non per comprare cibo, perché è difficile rientrarne in possesso.

    Le continue battute rendono talvolta difficile capire se Mork stia scherzando oppure se stia esprimendo seriamente un’opinione; probabilmente tutt’e due le cose allo stesso tempo. Sono aforismi graffianti o nonsense, che nascono dal confronto delle mentalità terrestre e orkiana attraverso il filtro dell’osservatore esterno. Come il signor Spock, anche Mork fatica spesso a comprendere gli esseri umani; ma mentre il vulcaniano di  Star Trek considera gli umani illogici, quasi “difettosi”, l’alieno venuto da Ork non esprime giudizi positivi o negativi, pur trovandosi a volte di fronte a situazioni che lui trova astruse e inutilmente complicate; da vero cosmopolita si limita a osservare e a tentare di razionalizzare, uscendo poi con spiegazioni dalla logica ferrea per lui ma spiazzante per noi poveri terrestri, giungendo per altre vie a quell’automatismo psichico puro tanto caro ai Surrealisti.

    Mork & Mindy

    Se il suo gesto di saluto appare a noi spettatori come una caricatura del suo serissimo corrispondente vulcaniano, gli appellativi onorifici ed estremamente rispettosi con cui Mork si rivolge al suo superiore Orson (“Vostra Immensità”, tanto per ricordarne uno) sono una iperbole dei titoli umani, un po’ come i megadirettori di Fantozzi, altro personaggio ascrivibile al surrealismo.

    – Ci siamo visti troppo, ultimamente.
    – Chiudi un occhio, così mi vedrai di meno.

    Prima ancora dell’insegnante Keating in L’attimo fuggente, che ricordava ai suoi studenti che bisogna sempre guardare le cose da angolazioni diverse (“è proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva, anche se può sembrarvi sciocco o assurdo”), e di tanti altri ruoli fuori dagli schemi, con una loro propria logica e folli solo in apparenza, Robin Williams è stato per me il professor Mork, docente di surrealismo.

  • Morti fuori e morti dentro

    La notte dei morti viventi

    Quelli sui morti viventi sono tipicamente film di assedio; seguendo il modello classico del cinema, l’azione vede la contrapposizione di due gruppi principali: i vivi, asserragliati in un luogo chiuso, e i morti, che occupano il mondo esterno. La sopravvivenza dei primi dipende dalla resistenza della barricata e, viceversa, la sua fragilità determina il successo dei secondi.

    Di conseguenza la scena si riduce spesso a un unico spazio chiuso, quasi teatrale, un territorio da difendere, circondato da barriere anti-zombi, dai tratti caratteristici e a volte simbolici. Nella Notte dei morti viventi è un’abitazione di campagna; in Zombi un ipermercato di periferia; nel Giorno degli zombi una base militare sotterranea; in Dead Set la casa televisiva di Big Brother; in The Horde un palazzo della banlieue parigina; in World War Z l’intera città di Gerusalemme, circondata da un altissimo muro. Anche The Walking Dead, opera tutto sommato classificabile come on the road, è un susseguirsi di assedi intervallati da fughe, nella eterna ricerca di nuovi posti che possano offrire una almeno temporanea salvezza. I morti non inseguono: convergono, come un fenomeno naturale o una osmosi chimica che porta a livello di entropia la pulsione di morte.

    The Horde

    Per quanto protetto, l’interno è forzatamente un riparo transitorio e non destinato a durare: nessuna barriera può resistere per sempre agli assedianti e la conseguenza prima di ogni assedio è l’esaurimento delle scorte che garantiscono la sopravvivenza. Inoltre, la rivalità tra gli assediati, spesso in disaccordo sulle strategie da adottare per la sopravvivenza del gruppo, rende ulteriormente insicuro lo spazio chiuso, diventando a volte un nemico ben più temibile degli zombi. Nella Notte dei morti viventi la discussione su quale sia il luogo più sicuro della casa è fonte di continui scontri tra i protagonisti. In genere si assiste a una divisione dei vivi tra quanti vogliono continuare a restare all’interno, rafforzando continuamente le difese, e quanti vogliono invece tentare una sortita per cercare un rifugio migliore. I morti si accumulano fuori e dentro la casa.

    Le comunicazioni dall’esterno, quando ancora esistono, contribuiscono all’incertezza e alla confusione: se da un lato radio e tv raccontano il carattere globale della catastrofe, invitando a rimanere al chiuso, dall’altro indicano zone protette (per lo più illusoriamente) dove la popolazione può cercare rifugio.

    Il giorno degli zombi

    Con il pericolo che si annida contemporaneamente all’esterno e all’interno, due tipi di paura convivono in questi film: agorafobia, dato che trovarsi all’esterno in mezzo ai morti viventi non è un’esperienza consigliabile, e claustrofobia, con le mani degli zombi che battono su vetri e porte sbarrate e i vivi che, costretti in spazi sempre più angusti e inospitali, ingannano l’attesa scannandosi tra loro. Nonostante il confine tracciato, l’incertezza accomuna entrambi le zone; spesso tutte le soluzioni possibili, mantenere l’assedio o tentare la fuga, si rivelano letali, contribuendo alla tensione e al continuo spiazzamento dello spettatore, lasciato senza speranza come i malcapitati personaggi.

  • Lo zombi come consumatore finale

    Zombi

    Caratteristica dei morti viventi è la cristallizzazione dei gesti di ogni giorno, ripetuti insensatamente e senza alcuno scopo all’infinito. Dopo la condanna della società punitiva della Notte dei morti viventi, con Zombi George A. Romero inaugura una serie di caricature dell’umanità capitalista: i cadaveri ambulanti tornano al centro commerciale perché rappresentava un punto di riferimento importante della loro vita: la spinta al consumo è così forte che anche dopo la morte rimane motore istintuale. Le mani che premono sulle porte a vetri chiuse sono quelle di consumatori che chiedono di essere ammessi al loro paradiso.

    Elemento fondamentale del perturbante dei morti viventi romeriani è l’inutilità dei loro atti, l’assenza di qualunque volontà, il non perseguire il bene o il male, il loro non progredire verso alcun obiettivo che non sia una sazietà irraggiungibile perché ciò che mangiano non può sfamarli; al tempo stesso la loro unica mira sembra una scelta cosciente di massa, un tentativo di annichilire vita e morte facendo scomparire i vivi ingurgitandoli o riducendoli a loro volta in nuovi morti viventi.

    Zombi

    Per i quattro rifugiati che si barricano nell’ipermercato questo costituisce un’oasi di salvezza ma anche la realizzazione del sogno consumistico attraverso il saccheggio, saccheggio che va oltre la semplice necessità di sopravvivenza e che contribuisce al raggiungimento di una vita agiata secondo gli standard capitalisti dell’omologazione a un modello di esibizione del benessere. Il deposito delle merci è diventato la nuova frontiera da conquistare e difendere come propria, il neo-Far West che contraddistingue il cinema post-apocalittico ma ridotto allo spazio dei prodotti. Al contempo, la banda dei teppisti in motocicletta transita immutata nelle abitudini dal vecchio al nuovo mondo: il vivere alla giornata e l’indifferenza alla proprietà non rappresentano per loro un cambiamento.

    Zombi

    Gli zombi si ritrovano a indossare i loro ultimi abiti da vivi; privi di ricordi consci e in definitiva di identità, la loro unica distinzione diviene per sempre il loro aspetto; i vestiti sono l’unico mezzo per tentare di ricostruire ciò che sono stati. Per il resto sono accomunati nel destino e nella fame, metafora dell’eredità estrema della società: gli zombi non sono cannibali, in quanto non si divorano tra loro; è la società nel suo insieme ad autocannibalizzarsi. Non è una necessità che spinge i morti a cibarsi dei vivi ma il tentativo di obbedire al dogma di un consumismo portato all’estremo.

    Si tratta di un consumismo terminale, in cui non esiste più produzione: zombi e sopravvissuti non creano più, si limitano a divorare l’esistente.  I morti viventi sono la sintesi ultima, i consumatori finali: l’umanità si autodivora senza alcuno scopo, verso un’entropia che unisce vita e morte, consumatori e consumati.

  • Il giorno degli zombi come apocalisse laica

    La notte dei morti viventi

    La risurrezione è un tema che rientra per tradizione nell’esclusivo dominio della religione cristiana; è evidente quindi la carica eversiva del cinema nell’appropriarsi del giorno in cui i morti risorgeranno trasformandolo in un’apocalisse sostanzialmente laica. Non a caso, l’orrore in La notte dei morti viventi comincia in un cimitero, privato del suo ruolo rituale di luogo dell’eterno riposo.

    Nei film sugli zombi nulla di ciò che viene promesso dalla religione viene mantenuto, se non la pura “riesumazione alla vita” della carne. Ma questa rimane appunto carne, per giunta allo stadio della morte o della putrefazione; non c’è in genere alcuna parvenza di anima: a guidare gli zombi è solo una specie di istinto primordiale che li porta a divorare i viventi e a ripetere all’infinito gli stessi gesti di quando erano vivi.

    World War Z

    Per quanto alcuni sopravvissuti tentino di attribuire un’origine mistica agli avvenimenti (una famosa battuta di Zombi recita: “quando non ci sarà più posto all’Inferno, i morti cammineranno sulla terra”), le spiegazioni, quando possibili, sono quasi sempre scientifiche, dalle radiazioni della sonda venusiana della Notte dei morti viventi al virus di World War Z. Non solo: se per difendersi da fantasmi e vampiri sono possibili protezioni di origine pseudoreligiosa come croci ed esorcismi, per gli zombi esistono solo le armi, proprie o improprie, con cui colpirli, (possibilmente in testa, perché solo il livello istintivo del cervello funziona).

    Il giorno degli zombi

    L’assenza del divino e la conseguente implicita negazione di ogni speranza di una vita ultraterrena rafforzano il senso di “fine del mondo” atea, senza alcuna ipotesi consolatoria di origine religiosa: gli unici modi di sfuggire a un’esistenza di eterna non-morte sono restare vivi o assicurarsi di morire definitivamente; non a caso le promesse che si fanno tra loro i protagonisti di questi film sono garanzie di morte: un colpo in testa garantisce di non tornare come zombi. La pietà verso gli uomini non è soccorrere ma uccidere. La religione, con il suo rispetto per i morti, diventa addirittura un ostacolo alla salvezza, impedendo di oltraggiare i cadaveri dando loro il colpo di grazia.

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