• Dead Set, o la televisione dei morti viventi

    Dead Set

    Nel 2008, a dieci anni dalla nascita dello show televisivo Big Brother, in Gran Bretagna esce Dead Set, miniserie horror scritta dal giornalista e umorista Charlie Brooker.
    Dead Set è una zombie apocalypse ambientata quasi completamente nella casa di Big Brother; la serie è stata trasmessa per la prima volta da Channel 4, la stessa emittente che mandava in onda il Grande Fratello inglese, e ha visto l’autoironica partecipazione di alcuni dei protagonisti dello show originale. La trama segue l’impianto classico del genere, con la rapida diffusione dell’epidemia che provoca la trasformazione della popolazione in morti viventi (nella fattispecie quelli che corrono) e il successivo assedio dei pochi superstiti in uno spazio ristretto, appunto la casa di Big Brother.
    Apparentemente nulla di nuovo se non fosse appunto per l’ambientazione, che trasforma il film di genere in una spietata satira della reality tv e del suo pubblico, e per la forte carica di violenza splatter, insolita per un prodotto televisivo, che fa schizzare sangue e frattaglie su pavimenti, pareti e obiettivi delle telecamere.

    Dead Set
    Se nel ciclo degli Zombi di George A. Romero i morti viventi sono una metafora della società (di volta in volta punitrice, consumista, militarizzata), qui diventano incarnazione del pubblico televisivo, inconsapevole complice della sua stessa compiaciuta ed entusiastica autocannibalizzazione; un pubblico ridotto a massa per cui la televisione produce e manda in onda una programmazione tagliata sul minimo comune denominatore, a incontrare il gusto della maggioranza; un pubblico che prova al tempo stesso piacere e disgusto a osservare, partecipare e in definitiva a osservarsi.
    A poco o nulla valgono i tentativi di resistere dei superstiti, dalle barricate nella casa fino alla cinica trovata del produttore di usare gli stessi corpi smembrati dei protagonisti dello show come succulenta esca per gli zombi, così come del resto faceva con loro quando erano vivi, dandoli in pasto ai telespettatori affamati della loro vita.

    Dead Set
    Il finale trova i morti viventi a fissare le telecamere ormai inutili del programma, con l’immagine che si replica all’infinito per l’eternità, con l’occhio, che è anche il logo di Big Brother, osservatore e osservato e la quotidianità dello show che diventa quotidianità della vita e ne decreta definitivamente la morte.

  • Tutti i colori di “2001: odissea nello spazio”

    2001: odissea nello spazio è la seconda pellicola a colori di Stanley Kubrick, dopo il bianco e nero di Lolita e Il dottor Stranamore, ed è proprio il colore uno dei mezzi narrativi principali di un film dove l’immagine prevale su tutto e costituisce la storia.

    2001 odissea nello spazio

    Paradossalmente, i colori principali sono due non-colori, il bianco e il nero. Il bianco, luce alla massima intensità ma priva di ogni tinta, conferisce sicurezza ma anche freddezza e artificialità agli ambienti costruiti dall’uomo: gli scafi delle astronavi e i loro interni sono mondi asettici, privi di personalità, dove tutto è messo nitidamente in mostra ma al tempo stesso appare distaccato dall’umano. Bianco è l’ambiente “impossibile” in cui si conclude e nuovamente inizia la vita di David Bowman, ultimo astronauta della missione Discovery: stanze che imitano in modo surreale una suite di hotel in stile settecentesco, illuminata da una luce bianca, di vita e di morte, proveniente dal pavimento.

    2001 odissea nello spazio

    Per contrasto, il nero è il colore con cui si apre e si chiude il film; è il buio della notte primeva, in cui i progenitori dell’uomo si stringono impauriti l’uno all’altro ascoltando il ruggito del ghepardo. Nero è lo spazio in cui si muove la Discovery nel suo viaggio verso Giove: se il cosmo di Star Wars apparirà punteggiato da migliaia di stelle, quello di 2001 è quasi vuoto, a sottolineare la solitudine e la distanza dei terrestri dal loro mondo.

    2001 odissea nello spazio

    Nero è anche il misterioso monolito che compare nei punti chiave della trama e dell’evoluzione umana: un parallelepipedo oscuro e impenetrabile, il cui interno non si può nemmeno immaginare e forse non esiste neppure, oggetto venuto dalle stelle e che alle stelle trasporta. Attraverso il monolito Dave Bowman inizia un viaggio verso l’infinito: il nero del monolito esplode (o implode?) in una miriade di colori che rappresentano mondi lontanissimi. Come lo schermo cinematografico, di cui conserva le  proporzioni, il monolito è lo spazio della possibilità, del sogno e dell’esplorazione. Lo schermo diviene tavolozza di sogno su  cui il regista sparge colori che si rovesciano addosso allo spettatore a incredibile velocità, fino a consolidarsi in nebulose, galassie, stelle, pianeti.

    2001 odissea nello spazio

    Nel bianco della Discovery spicca invece l’occhio rosso di HAL 9000: luce che simboleggia una presenza, unica proprio perché sempre identica a se stessa anche se ripetuta in tutti gli ambienti dell’astronave e persino al suo esterno, sulle capsule per l’attività extraveicolare; il cerchio rosso, oggetto osservabile e osservatore, soggettiva artificiale dell’obiettivo, incarna l’essenza di HAL e la rappresentazione della sua onniscienza e pervasività a bordo dell’astronave. Colore tutt’altro che rassicurante, il rosso è  la condizione di pericolo: rossa è la camera stagna attraverso cui Dave rientra sulla Discovery, come rosso è il cervello stesso di HAL, stretta stanza dove risiedono i moduli della coscienza del computer.

    2001 odissea nello spazio

    Quasi trasparente è l’involucro che racchiude il Bambino delle stelle, il nuovo, rinato ed evoluto Dave Bowman, che torna verso l’azzurra Terra e conclude il film interrompendolo bruscamente e riprecipitandoci ancora una volta nel nero e nell’incertezza del futuro.

  • Morti che camminano e morti che corrono

    L'alba dei morti viventi
    I morti che corrono non mi piacciono. Non che abbia qualcosa in contrario a una efficiente deambulazione dei defunti, ma per me gli zombi che camminano strascicando i piedi sono migliori. C’è qualcosa di inquietante e definitivamente simbolico nel contrasto tra la facilità con cui si può abbattere un nemico lento, impacciato e rimbecillito rispetto all’essere letale di una massa di individui del genere.
    Detto questo, L’alba dei morti viventi di Zack Snyder è un buon film. Sfugge dal facile schema del remake riproponendo sì la medesima ambientazione dell’originale (il centro commerciale) ma costruendo un suo percorso, meno politico e splatter e più ironico, fracassone e forse ancor più pessimista dell’originale Zombi di George A. Romero.
    L'alba dei morti viventi
    Gli stereotipi del genere ci sono tutti, dallo stato di assedio alle lotte all’interno del gruppo di assediati, dal mondo apocalittico ai pasti a base di carne umana. L’apporto di Snyder sta nelle situazioni della quotidianità, come il dialogo a base di cartelli con un sopravvissuto isolato, e nella regia nervosa, nella visione globale dell’apocalisse, nell’immagine piena di disturbi elettronici che rende l’attualità del mezzo del racconto, mass-mediale e continuamente rimediante, con visioni pop tra reportage, videoclip e fumetto.
    Le citazioni per l’appassionato cinefilo si sprecano (il bagno da Shining e il predicatore televisivo da Zombi, tanto per citarne un paio); la musica diegetica del centro commerciale fa spesso da contrasto ironico e divertito all’azione.
    Peccato per i personaggi, che incarnano ruoli poco sviluppati, e per alcune scene imbarazzanti e gratuite. La carica sovversiva e underground si perde e il morto vivente passa da metafora della società a puro oggetto scenico di un action movie e corre come gli zombi di 28 giorni dopo di Danny Boyle.

  • H.R. Giger, l’alieno biomeccanoide

    Ripubblico qui un articolo che scrissi ormai quasi vent’anni fa per la rivista Betarelease. H.R. Giger se n’è andato dopo aver popolato il nostro immaginario di meravigliosi mostri.

    Siamo tutti insettoidi estranei, nascosti nei nostri corpi urbanoidi. I quadri di Giger che mostrano la carne, i suoi paesaggi al microscopio, sono segnali di una mutazione.
    Timothy Leary

    Se Alien di Ridley Scott è diventato uno dei maggiori successi della fantascienza cinematografica, molto è dovuto a Hans Ruedi Giger, che ne ha disegnato le scenografie e ha progettato l’insidioso parassita extraterrestre che divora i membri dell’equipaggio dell’astronave Nostromo.

    Alien

    Nato nel 1940 in Svizzera, Giger è un artista quanto mai eclettico: oltre che ad Alien, ha lavorato a molti altri film di fantascienza. Ma è soprattutto pittore e scultore. Titoli di opere come Biomeccanoidi o Erotomechanics riflettono bene una estetica del metallo che si stempera nella carne, dell’arto che si prolunga nella simulazione bionica, di se stesso o di qualcos’altro.

    Nei quadri di Giger, lo sfondo si ibrida spesso con i soggetti ritratti, inglobandoli e nutrendosene. E a volte sono gli stessi soggetti a costituire lo sfondo dell’opera, come nella serie dei Paesaggi biomeccanici. Ossa ed eso-endoscheletri al titanio, carne e membrane elastiche, tubi e vene emergono indifferenziati a costituire corpi-macchina, corridoi di nervi e muscoli, cyborg torturati, organi sessuali per travasamenti in serie che sembrano usciti dal Mondo nuovo di Huxley.

    Li II

    Le tele gigantesche spruzzate con l’aerografo sono veri e propri ipertesti che illustrano la “trasmigrazione biomeccanica dell’anima” (titolo di un quadro di Giger), la mutazione dei nostri corpi e dei nostri strumenti in una nuova entità. Come un cancro creatore, il metallo degli oggetti di cui ci circondiamo si insinua sotto la pelle e ci modifica, arricchendo i nostri corpi di nuovi, infiniti sensi.

    The Spell I

    Le strutture raffigurate nelle opere di Giger sembrano parti di immense macchine, di cui gli esseri viventi sono parte integrante. E l’artista non sembra essere attratto tanto dalla funzione della macchina, quanto dalla sua fattibilità, almeno artistica. Ma la visione, pur in apparenza da incubo, non è da vedersi in chiave pessimistica, come profezia di una tecnologia che asserve l’uomo. Come ha scritto Timothy Leary, “… in queste opere ci vediamo come embrioni striscianti, come creature fetali, larvali, protette dall’involucro dei nostri ego, in attesa del momento della metamorfosi e della rinascita… Giger ci dà il coraggio di salutare il nostro io insettoide”.

    Cronologia di una mutazione

    1940 – Nasce a Chur, Svizzera.
    1960 – Costruisce la Camera nera.
    1964 – Realizza gli Atomkinder.
    1966 – Termina la scuola di artigianato e allestisce la prima mostra personale a Zurigo.
    1969 – Vengono stampati i primi poster da opere di Giger, tra cui Biomeccanoidi 1969.
    1971 – Viene pubblicato ARH+, il primo catalogo delle sue opere.
    1973 – Disegna la copertina del disco Brain salad surgery di Emerson, Lake & Palmer.
    1976 – Lavora al progetto del film Dune.
    1977 – Comincia a lavorare ad Alien.
    1979Alien viene presentato al pubblico a Hollywood. Davanti al cinema troneggia un’enorme quadro di Giger realizzato per il film.
    1980 – Giger riceve l’Oscar per gli effetti speciali di Alien.
    1981 – Dipinge la serie di quadri N.Y. City.
    1983 – Viene invitato come ospite d’onore ai festival del cinema fantastico di Bruxelles e Madrid.
    1985 – Realizza varie scene per Poltergeist II.
    1986 – La rete televisiva tedesca ZDF realizza un documentario dal titolo L’universo fantastico di H.R. Giger.
    1987 – Mostra di opere di Giger in Giappone, alcune delle quali appositamente ralizzate. Nasce Biomechanoid 87, il fanclub giapponese dedicato a Giger.
    1988 – A Tokyo viene realizzato il primo Bar Giger.
    1990 – Lavora ad Alien III.
    1995 – Lavora al film Specie mortale.
    1996Visioni di fine millennio: mostra di opere di Giger a Milano.

    Gigerjargon

    Alien – Film di fantascienza diretto da Ridley Scott nel 1979. Giger realizzò scenografie e il costume dell’alieno, di cui Carlo Rambaldi mise a punto i movimenti meccanici.
    Atomkinder – Bambini atomici. Serie di disegni a china apparsi su varie riviste scolastiche.
    Camera nera – Sorta di “tunnel dell’orrore”, con scheletri e mostri vari animati da Giger e dai suoi amici, per il “divertimento” dei visitatori
    Dune – Progetto per un film di fantascienza tratto dalla omonima saga letteraria di Frank Herbert. Giger realizzò dipinti e disegni preparatori. Il progetto venne poi abbandonato dal regista Alexandro Jodorowsky per mancanza di finanziatori. Il film venne in seguito realizzato da David Lynch, senza H.R. Giger.
    Poltergeist II – Film dell’orrore diretto nel 1986 da Brian Gibson, seguito del primo Poltergeist di Tobe Hooper. Nonostante il discreto successo, Giger si dichiarò insoddisfatto della realizzazione visuale dei suoi progetti.
    Specie mortale – Film di fantascienza di Roger Donaldson, per il quale Giger crea l’aliena Sil.

  • Tutti i bambini di Spielberg (o quasi)

    Il cinema di Steven Spielberg è per una buona parte cinema per bambini, sui bambini ma soprattutto atttraverso i bambini. Oltre la narrazione compare un punto di vista costantemente meravigliato delle potenzialità del mezzo cinematografico, della fascinazione delle immagini e della costruzione filmica. Anche in film “adulti” Spielberg ci fa regredire o ci mette a confronto con il nostro stupore di bambini.

    Lo squalo

    Lo squalo minaccia gli esseri umani senza distinzione di età ma la meraviglia per la creatura mostruosa e l’avventura della sua ricerca ci ritrova tutti bambini: la caccia prende a tratti la connotazione del gioco. Spielberg mescola temi “alti” da Melville e Hemingway alla cultura pop senza perdere d’occhio la traccia favolistica.

    Incontri ravvicinati del terzo tipo

    In Incontri ravvicinati del terzo tipo spetta al piccolo Barry sperimentare in prima persona l’incontro con gli alieni, senza averne paura e affascinato dalle splendide luci che scendono dal cielo e dalla misteriosa e ipnotica melodia di cinque note che invita a giocare. Il tema del Pinocchio disneyiano ricorre più volte e When You Wish Upon A Star riecheggia quando il protagonista, circondato da alieni che dei bambini hanno l’altezza e le movenze, si fa portare via da loro verso un viaggio che è forse la realizzazione di un sogno dell’infanzia.

    In 1941 – Allarme a Hollywood gli adulti, con le loro paure di invasioni giapponesi, si rivelano degli inguaribili bambinoni (John Belushi per primo) alle prese con giocattoli troppo grandi per loro; persino il generale che dovrebbe occuparsi di organizzare la difesa viene sorpreso al cinema mentre si commuove guardando Dumbo.

    I predatori dell’arca perduta e in generale la serie di Indiana Jones è un unico grande luna park, con scheletri, serpenti, topi, insetti e altri animali “schifosi”, cattivoni che spaventano e divertono come i fantocci del tunnel degli orrori, mentre i protagonisti vengono sballottati qua e là su un gigantesco ottovolante di continue invenzioni e peripezie.

    E.T. L'extra-terrestre

    E` invece E.T. L’extra-terrestre  il primo film spielberghiano a raccontare una storia per  bambini e da bambini  interpretata. Elliott, Gerthie e Michael sono testimoni del primo “incontro ravvicinato” e proteggono l’alieno da un mondo fatto di adulti, mondo nemico, in quanto scettico o fin troppo interessato, tanto a loro quanto a E.T.; è un segreto da custodire in camera e da rivelare solo ai coetanei. La magia è quella della favola di Peter Pan: la radura nel bosco da dove “telefonare casa” diventa un’Isola che non c’è che i grandi non possono o non devono trovare. Anche la macchina da presa assume il punto di vista e l’altezza dei piccoli protagonisti, a indicare maggiore meraviglia per l’ignoto e per un mondo che ci appare di colpo immenso anche se quasi completamente limitato all’interno della casa dove si svolge la maggior parte dell’azione.

    L'impero del sole

    La guerra e la prigionia viste dal giovanissimo Jim sono invece al centro del ballardiano L’impero del sole. L’invasione della Cina da parte del Giappone separa il protagonista (un quasi esordiente e bravissimo Christian Bale) dai genitori e dal mondo sicuro e protetto in cui viveva per precipitarlo all’interno della guerra, della prigionia, della fame e della morte. Pur costretto a crescere in fretta, Jim non perde il suo sguardo meravigliato ed entusiasta: caccia a volo radente e bombardieri sono giganteschi giocattoli che per la prima volta sono visibili da vicino, quasi a portata di mano, e poco importa del pericolo che rappresentano. La terribile luce della prima bomba atomica diventa un’anima che vola in cielo; l’aviatore giapponese, kamikaze fallito, diventa un amico con cui condividere una passione.

    Un grande che impara a ritrovare l’infanzia è invece il protagonista di Hook – Capitan Uncino, in cui Robin Williams interpreta un Peter Pan immemore del proprio passato che riscopre la possibilità di credere di nuovo alle favole e alla capacità di volare grazie a un nuovo “pensiero felice”.

    Jurassic Park

    Jurassic Park è di nome e di fatto un parco di divertimenti tematico per i bambini in scena ma anche per gli spettatori che bambini ridiventano, stupiti dalla potenza dell’effetto digitale che porta sullo schermo splendidi mostri che fino ad allora erano stati quasi sempre animati a passo uno.

    Schindler's List

    E’ il cappotto rosso di una bambina ebrea, unica macchia di colore in un film rigidamente in bianco e nero, a sottolineare l’orrore in Shindler’s List. Lo vediamo due volte, condividendo lo sguardo del protagonista: la prima quando la piccola sembra sfuggire al rastrellamento del ghetto; la seconda quando il corpo della piccola viene riesumato e avviato insieme ad altre migliaia alla cremazione con cui i nazisti tentato di nascondere le prove dei loro massacri.

    Un bambino falso ma “più umano dell’umano” è il protagonista di A.I. – Intelligenza artificiale, tra un Pollicino e un Pinocchio ipertecnologico che, come il suo predecessore di legno, anela a diventare un bambino vero. Il suo ultimo desiderio sarà quello di vivere ancora un giorno con la madre adottiva.

    La salvezza dei figli è al centro delle preoccupazioni di Tom Cruise di fronte all’invasione aliena nella versione spielberghiana della Guerra dei mondi. Perso il primogenito, attratto  dal fascino dell’evento, è la sorella minore Rachel a diventare l’unico pensiero del protagonista, che si occupa al tempo stesso di proteggerla dalla cattura da parte degli extraterrestri e dall’orrore della vita sul pianeta sconvolto dall’attacco. In un film influenzato nell’estetica e nei temi dagli attentati dell’11 settembre, il nemico da cui fuggire è una minaccia esterna ma anche la follia paranoide degli stessi terrestri.

  • Spaghetti cyberpunk: Nirvana

    Nirvana

    Fare fantascienza in Italia non è mai stato facile, non per la carenza di idee (anzi, basta vedere le geniali invenzioni di Mario Bava e Antonio Margheriti) ma per quella di fondi: nessun produttore ha mai avuto il coraggio o i capitali necessari per un genere che richiedeva grosso impegno e non garantiva facili risultati.

    Anche per questo va ricordato Nirvana; non certo il miglior film di Gabriele Salvatores ma comunque uno di quelli di maggior successo e per giunta di genere fantascientifico.

    La trama in breve: in un prossimo futuro, il personaggio di un videogioco ancora in fase di sviluppo diviene d’un tratto autocosciente; insoddisfatto, anzi schifato, della sua condizione, chiede al creatore del gioco di porre fine alla sua esistenza, cancellandolo. Da questo punto la storia si divide tra le disavventure tragicomiche del personaggio che tenta di rompere la logica del gioco e quelle del programmatore, nei suoi tentativi di infiltrarsi nel sistema dell’azienda produttrice del gioco per cancellarlo prima che venga commercializzato.

    Nirvana

    Al di là della divertente galleria di personaggi tipici di Salvatores (da Diego Abatantuono a Claudio Bisio, a Silvio Orlando, passando per un cameo di Paolo Rossi), dalla recitazione quasi sempre sopra le righe, Nirvana è una vera antologia di situazioni e atmosfere cyberpunk: incursioni nel ciberspazio, realtà virtuali, antieroi hardboiled, protesi oculari, urbanesimo in decomposizione. Il frequentatore dei racconti di Gibson e Sterling si diverte a trovare le innumerevoli citazioni letterarie del genere. Anche il set è postindustriale e sfrutta la location di un vecchio stabilimento Alfa Romeo.

    Nirvana

    Come nello spaghetti western, le situazioni e i luoghi comuni del genere sono portati all’eccesso e divengono spesso caricature degli archetipi da cui traggono ispirazione; l’inseguimento nel quartiere di Bombay City è a metà strada tra la violenza e la commedia; la cruenta operazione agli occhi di Sergio Rubini è talmente eccessiva da strappare una risata; i luoghi, reali o virtuali, sono pure visioni psichedeliche, metafore di un melting pot sociale e di un immaginario culturale in trasformazione. All’atmosfera contribuisce la splendida colonna sonora di Mauro Pagani.

    Ciò che manca a Nirvana non sono dunque gli ingredienti, ottimi e abbondanti, ma la ricetta: il film opera per accumulo di situazioni e di suggestioni senza riuscire a trovare una chiara direzione. I dialoghi a volte sono troppo didascalici e tolgono fliudità alla storia. Non aiuta un Christopher Lambert dallo sguardo vuoto e inespressivo. Si rimbalza da una gag all’altra con la sensazione di non andare da alcuna parte.

    Nirvana

    Ma forse è proprio questo disorientamento la chiave del film: un mondo dominato da una tecnologia pervasiva, impalpabile e al tempo stesso tremendamente fisica; una società in mutazione; una crisi di valori tradizionali e un’incerta ricerca di nuovi riferimenti; un cinema italiano che cerca di reinventarsi, sospeso tra la commedia e la sperimentazione, e che forse è già in parte videogioco.

  • Cronache del dopobomba

    Panic in year zero

    La fine della seconda guerra mondiale ha segnato l’ingresso nell’immaginario della catastrofe atomica. Per la prima volta l’uomo si è trovato in possesso dei mezzi per potersi autocostruire una sorta di apocalisse laica, che non ha bisogno di accadimenti naturali o interventi divini.

    Anche il cinema è rimasto ovviamente influenzato dalle conseguenze effettive o possibili dell’era atomica: dalle spaventose esplosioni di Hiroshima e Nagasaki il cinema ha tratto cronaca, denuncia, impegno civile e, come è nella sua natura, drammatizzazione e spettacolo.

    L’incubo atomico compare in innumerevoli pellicole; siano queste ricostruzioni storiche, ipotesi future o divertenti e fracassoni Kaiju eiga, si tratta comunque di documenti che testimoniano come la minaccia atomica in tutte le sue forme abbia fatto parte di una coscienza collettiva ampiamente condivisa nel periodo della Guerra fredda.

    Il filone post apocalittico atomico è dominato dall’illustrazione del dopobomba: le conseguenze del fallout nucleare, la sofferenza e la disperazione dei sopravvissuti, la difficoltà della vita quotidiana nel nuovo medioevo sono tutte caratteristiche della retorica del genere.

    L'ultima spiaggia

    L’ultima spiaggia di Stanley Kramer narra di un sommergibile americano che, qualche tempo dopo la terza guerra mondiale, vaga alla ricerca di luoghi ancora vivibili in un pianeta avvelenato dalle radiazioni. La missione è però destinata al fallimento: non ci sono più posti sicuri e il mondo è ormai un deserto; tutti i protagonisti muoiono uno dopo l’altro, in incidenti o suicidandosi; dettaglio amaro e ironico, quello che sembrava un ultimo segnale di vita si rivela essere una bottiglia di Coca-Cola che sbatte, sospinta dal vento, contro il tasto di un telegrafo.

    Il pianeta delle scimmie

    La saga del Pianeta delle scimmie, iniziata con il film omonimo da Franklin J. Schaffner, ci porta a secoli di distanza nel futuro, dove quello che sembra all’inizio un remoto pianeta, dominato da scimmie evolute, si rivela essere la Terra molto tempo dopo la guerra atomica. L’invettiva finale pronunciata da Charlton Heston di fronte a quello che rimane della Statua della Libertà è uno dei momenti più celebri della storia del cinema.

    The Day After

    Vero caso televisivo, The Day After, da noi proiettato anche al cinema con enorme successo, pur non avendo grandi qualità filmiche ha suscitato un dibattito mondiale sulla corsa agli armamenti e ha probabilmente contribuito a una generale presa di coscienza dei terribili effetti di una ipotetica guerra nucleare. Il film mostra l’impatto della terza guerra mondiale sul microcosmo di Kansas City e dintorni, usando (nel bene e nel male) tutta la retorica del disaster movie. Pur dipingendo la generale sconfitta dell’intera umanità in una guerra che non permette di distinguere tra vincitori e vinti, The Day After è comunque saturo di patriottismo USA e rivela una (minima) dose di fiducia nella sopravvivenza delle istituzioni.

    Threads

    Simile, anche se di altro tenore, è un’altra produzione televisiva, questa volta della britannica BBC: Threads, trasmesso in Italia con il titolo Ipotesi sopravvivenza. Girato come un gelido e spietato docudrama, il film segue le vicende di due famiglie della cittadina inglese di Sheffield prima e dopo l’attacco atomico, fino a qualche anno nel futuro. L’orrore in Threads è reso ancora più terribile dal contrasto tra l’angosciante storia dei personaggi e la fredda, didattica descrizione degli avvenimenti, con dati sugli ipotetici megatoni caduti sulla Gran Bretagna, procedure di emergenza, stime sui numeri delle vittime. Terrificante è la scena dell’uscita dal rifugio della protagonista, che muove i suoi primi passi nel mondo devastato. Lo stile documentaristico è mutuato da un precedente televisivo, sempre della BBC, The War Game, considerato all’epoca troppo perturbante per essere trasmesso in televisione. Colpiscono, qui come in Threads, gli sguardi in macchina dei sopravvissuti, terrorizzati, smarriti, accusatori.

    Quando soffia il vento

    Ancora britannico è il film di animazione Quando soffia il vento, tratto dal fumetto di Raymond Briggs, tenera storia di due vecchietti della campagna inglese colpiti dalle radiazioni del bombardamento, che cercano di affrontare con calma la situazione seguendo i consigli del governo e la loro esperienza della seconda guerra mondiale, non riuscendo a immaginare le incomparabili differenze di quest’ultima con la moderna guerra nucleare. Evocativa colonna sonora di Roger Waters, con interventi di David Bowie, Genesis e altri.

    Hadashi no Gen

    Non vive invece in una immaginaria terza guerra mondiale ma nell’atroce realtà storica del bombardamento di Hiroshima la serie di film tratta dal fumetto Hadashi no Gen, basato sulle personali esperienze dell’autore Keiji Nakazawa. Il più riuscito è il commovente anime del 1983, fedele ricostruzione che mostra con stile espressionista lo scoppio della bomba e la dura vita dei giorni successivi dal punto di vista del piccolo protagonista.

    Con la memoria del bombardamento atomico sul Giappone e la difficoltà del raccontarlo a chi non l’ha vissuto si confrontano anche i due grandi registi Alain Resnais e Akira Kurosawa, rispettivamente con Hiroshima mon amour e Rapsodia in agosto.

    Terminator

    Notti squarciate da lampi laser, robot assassini, tappeti di teschi triturati dai cingoli di gigantesche macchine: è il futuro apocalittico e cupo del ciclo di Terminator, dove gli ultimi residui dell’umanità si nascondono nei sotterranei e combattono contro la loro stessa creazione. Skynet è una versione ipertecnologica dell’”ordigno fine di mondo” del Dottor Stranamore, un network di computer della difesa che diventa autocosciente e inizia una guerra nucleare per sterminare i suoi creatori che vogliono tardivamente spegnerlo.

    Sperimentale e poco conosciuto è La Jetée; girato in Francia da Chris Marker, il film è composto quasi interamente da un montaggio di fotografie che mostrano gli effetti della guerra atomica su Parigi e gli sforzi dei sopravvissuti di cercare una soluzione alla loro condizione con viaggi nel tempo. La pellicola ha ispirato Terry Gilliam per il suo L’esercito delle 12 scimmie.

    In Italia un intero filone, derivato dall’immaginario di 1997: fuga da New York di John Carpenter, utilizza il dopoguerra nucleare come pretesto per un’ambientazione di rovine e senza più controllo, dove gli avanzi della società si trovano a combattere tra loro o contro governi autoritari. Vale la pena di menzionare I nuovi barbari, 1990 I guerrieri del Bronx e 2019 Dopo la caduta di New York.

    Il titolo di questo post è un piccolo furto ai danni di Bonvi e del suo Cronache del dopobomba, a sua volta citazione del titolo italiano di un romanzo di P.K. Dick. Bonvi porta in una terra futura distrutta dalla guerra nucleare lo stile ironico e dissacrante di Sturmtruppen, rendendolo ancor più eccessivo e cinico.

    Cronache del dopobomba

  • Apocalissi d’autore

    Il filone catastrofico è certamente commerciale; eppure i suoi archetipi, specie quelli del genere apocalittico, sono stati presi a prestito da registi più tipicamente ascrivibili alla categoria degli autori, che ne hanno usato l’immaginario per metafore nel contesto di un percorso personale. Si tratta quasi sempre di pellicole dominate dal pessimismo, che lasciano poco spazio alla speranza o alla redenzione e in cui l’uomo viene spesso condannato a scomparire, a volte per sua stessa mano, in un cupio dissolvi autopunitivo, altre volte per elementi esterni superiori all’umana volontà e quasi divini.

    Il Dottor Stranamore

    Stanley Kubrick usa l’incombente minaccia della guerra nucleare per mostrare nuovamente con amara ironia la sua disillusione nei confronti dell’opera umana. Nel Dottor Stranamore passa una sfilata di personaggi caricaturali non all’altezza della situazione o comunque incapaci di controllare un sistema di difesa da loro stessi creato e, in definitiva, di impedire una fine del mondo che proprio quello stesso sistema avrebbe dovuto invece scongiurare.

    Il seme dell'uomo

    Nel divertito nichilismo di Marco Ferreri affonda l’umanità di Il seme dell’uomo: nell’arco di pochi minuti una misteriosa catastrofe, di cui vediamo solo residuali immagini televisive che mostrano intere città in fiamme, stermina l’umanità, lasciando ai pochi sopravvissuti il compito di ripopolare la Terra; ma un insondabile destino si accanirà anche contro gli ultimi superstiti, condannandoli a scomparire.

    Quintet

    Un amaro pessimismo avvolge anche Quintet di Robert Altman: in un mondo simbolicamente e irrimediabilmente avvolto dai ghiacci, dove una civiltà in estinzione ha rinunciato a qualunque progresso, tutto quello che resta è ingannare l’attesa della fine partecipando a un gioco che conferisce al vincitore diritto di vita e di morte sugli altri partecipanti. Come scoprirà il protagonista, l’unico senso finale del gioco è il gioco stesso.

    Sogni

    Anche Akira Kurosawa nel suo Sogni vede un futuro disperato, all’interno di una visione onirica e ammonitrice: in un episodio il vulcano Fujiama, simbolo stesso del Giappone, erutta distruggendo una centrale nucleare costruita alle sue pendici; per sfuggire alla radioattività, il popolo scompare in mare, suicidandosi. Restano un uomo, una donna e un bambino, che cercano invano di allontanare il colorato vento radioattivo sventolando la giacca, in un estremo gesto di disperazione. Ancor più cupo è l’episodio successivo: in un panorama ormai nero e indistinto, costellato di piccoli laghi color sangue e mostruosi fiori, resi giganteschi dalle radiazioni, gli ultimi residui dell’umanità si spengono tra lotte per la sopravvivenza e atroci dolori prococati dalla crescita di demoniache corna sulla testa.

    Fino alla fine del mondo

    Sempre la minaccia nucleare, questa volta a causa del possibile rientro nell’atmosfera di un satellite fuori controllo, domina nella trama di Fino alla fine del mondo di Wim Wenders, (che già era passato per l’apocalittico film nel film di Lo stato delle cose) in un road movie che celebra il disfacimento dell’immagine e la salvifica parola scritta; i protagonisti ripercorrono il cammino dell’umanità, dalla vecchia Europa all’Australia, verso la creazione di una macchina magica che si dimostrerà capace di registrare i sogni.

    Melancholia

    La depressione come risorsa nella fine è invece uno dei temi di Melancholia. Con la consueta crudeltà nei confronti dei suoi personaggi, il regista Lars von Trier ripesca dalla fantascienza classica lo scontro tra corpi celesti per esplorare sentimenti e paure di un piccolo gruppo di fronte alla inevitabile scomparsa della Terra, destinata a entrare in collisione con un gigantesco pianeta.

  • Cabine cinematografiche

    “Il telefono è pubblico!”
    “Oh! Ho capito! Un momento! Se è pubblico, è pubblico pure per me, no?!?”

    (dialogo da Turné, di Gabriele Salvatores)

    Scrive ironicamente (ma nemmeno tanto) il buon Granieri nel commento a un suo post su Facebook che, trovandosi con il telefono cellulare scarico, lui, più che una cabina telefonica, cercherebbe una presa di corrente. Il caro sor Gigin vive da sempre con qualche anno di anticipo: celebrava la morte della carta in favore dell’e-ink quando non esisteva ancora il Kindle.

    Sulla cabina telefonica ha pienamente ragione: questi oggetti (o luoghi?) sono praticamente scomparsi dalle nostre vite nel giro di pochi anni. Di questi tempi se ne trova qualcuna in giro con un cartello attaccato che dice che se la si vuole mantenere bisogna rivolgersi alla Telecom prima della data di disattivazione (e chi l’ha mai fatto?). Nel Regno Unito le telephone box rosse si salvano in parte in quanto sono diventate un tale oggetto di culto da finire persino all’estero come elemento di arredo British style, mentre da noi sono solo pezzi di ferraglia inesorabilmente avviati verso la demolizione.

    Il telefono pubblico ha rappresentato per decenni l’unica possibilità di contatto immediato lontano da casa, tanto da venire rappresentata in moltissimi film, divenendo anche elemento significativo, se non addirittura insostituibile, della trama, a partire (o a concludere?) dall’esercizio di stile di Joel Schumacher In linea con l’assassino, che si svolge quasi interamente all’interno di una cabina. Ecco un breve elenco, sicuramente bucherellato e incompleto, sull’onda dei ricordi.

    Amici miei

    Non si contano i film, soprattutto italiani, con personaggi che, dall’epoca in cui anche il telefono fisso era un lusso, chiamano da una cabina o da un bar. Uno per tutti, in Amici miei il telefono è l’ambito oggetto del conte Mascetti, utilizzato per impagabili supercazzole e laide chiamate a moglie e amanti.

    Terminator

    Da un telefono pubblico parte il lungo inseguimento di Sarah Connor da parte del Terminator di James Cameron: l’unico modo che ha il robot di trovare la sua vittima è cercarla sull’elenco telefonico e uccidere tutte quelle che portano lo stesso nome.

    Matrix

    Diversi attacchi elettronici partono invece dalle cabine di Scanners, Wargames e Brainstorm: il telefono entra nell’immaginario hacker sin dai tempi di Capitan Crunch. Una cabina telefonica è anche la prima uscita dal mondo illusorio di Matrix, in una scena che omaggia Duel di Spielberg,

    Blade Runner

    Curioso è vedere come nell’immaginario del futuro fosse difficile prevedere l’avvento della telefonia cellulare, tanto che troviamo avveniristiche cabine telefoniche, quasi sempre dotate anche di video) in numerosi film. Dal telefono di un bar chiama il protagonista di Blade Runner di Ridley Scott, cercando maldestramente un appuntamento con una replicante.

    2001: odissea nello spazio

    Addirittura su una stazione spaziale si trova invece la cabina da cui il dottor Floyd chiama la figlia in 2001: odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Aguzzando la vista, si possono leggere persino le istruzioni per l’uso del telefono, come anche quelle del bagno a gravità zero in una scena successiva.

    Il Dottor Stranamore

    Sembre in Kubrick troviamo, nel Dottor Stranamore, una cabina telefonica da cui parte la chiamata fatta dal colonnello Mandrake al Presidente degli Stati Uniti (personaggi interpretati dal medesimo Peter Sellers), chiamata che serve per comunicare il vitale codice di richiamo dei bombardieri che stanno per annientare la Russia a colpi di atomiche. Situazione drammatica e comica al tempo stesso, in cui il colonnello si trova a fare i conti con la carenza di monetine necessarie per l’importante telefonata. Il tutto in un film celebre anche per l’esilarante conversazione telefonica tra Presidenti USA e URSS.

    L'esercito delle 12 scimmie

    Altra telefonata determinante, nel bene e nel male, è quella fatta da Bruce Willis a una segreteria telefonica che sarà ascoltata dai suoi mandanti del futuro nell’allucinato L’esercito delle 12 scimmie dell’ex-Monty Phyton Terry Gilliam.

    Rosemary's Baby

    Claustrofobica diventa invece la cabina/rifugio in una lunga scena del paranoico Rosemary’s Baby di Roman Polanski. La disgraziata protagonista Mia Farrow, messa incinta niente meno che dal Diavolo in persona e circondata da persone che complottano contro di lei, marito per primo, cerca disperatamente (e invano) aiuto nel suo medico di fiducia, mentre alle sue spalle un misterioso individuo si piazza fuori dalla cabina in attesa.

    Gli uccelli

    Ma il premio “cabina claustrofobica” se lo prende ovviamente Alfred Hitchcock; il maestro del terrore passa dalla cabina della doccia di Psyco a quella telefonica di Gli uccelli: questa volta tocca a Tippi Hedren cercare una temporanea salvezza dalla furia dei simpatici pennuti che sconvolgono la tranquilla cittadina di Bodega Bay e forse il mondo intero con una inaspettata e letale ribellione.

    Duel

    Aiuto telefonico cerca anche il malcapitato automobilista di Duel di Steven Spielberg, perseguitato da un camionista impazzito che tenta di ucciderlo in uno spaventoso road movie ambientato nella provincia americana.

    Fantozzi

    A trovare la salvezza è invece l’eterno perdente ragionier Ugo Fantozzi, che riesce a disfarsi della invadente e invaghita (di lui) madre dell’ennesimo capo dittatore, bloccandola in una cabina telefonica con dei bidoni della spazzatura.

    Superman

    Chi è che ha sempre bisogno della cabina telefonica per entrare in azione? In una breve gag di Superman, il povero Christopher Reeve, in disperata ricerca del suo luogo preferito per cambiarsi dal timido Cark Kent all’impavido supereroe, trova solo un telefono pubblico senza la rassicurante protezione della cabina.

    Doctor Who

    Per concludere, c’è chi ha fatto della cabina telefonica una specie di astronave: nella serie televisiva Doctor Who il protagonista si muove attraverso il tempo e lo spazio con il Tardis, una gigantesca macchina spaziotemporale che vista dall’esterno è piccolissima e identica a una postazione telefonica della polizia inglese.

  • L’onda digitale della catastrofe

    2012

    Dopo una lunga e quasi ininterrotta pausa, è grazie alla computer graphic che i disaster movie tornano nuovamente ai fasti degli anni ’70.

    Il banco di prova tecnologico è Jurassic Park di Steven Spielberg. Partito con l’idea di realizzare i suoi dinosauri con tecniche tradizionali (stop motion e animatroni), il regista si convince a passare a una nuova tecnologia dopo una efficace dimostrazione dei tecnici della ILM, che realizzano creature completamente digitali con livelli di dettagli e realismo mai raggiunti prima.

    Il primo vero film catastrofico dell’era digitale è Twister, che porta sullo schermo, complice ancora la ILM, una serie di convincenti e spettacolari tornado (e purtroppo non molto altro, a causa soprattutto di una sceneggiatura debole e personaggi male abbozzati); le spaventose trombe d’aria che devastano l’Oklahoma intrattengono un pubblico che si scopre di nuovo affamato di disastri da contemplare senza pensieri.

    Il titolo di re della nuova onda digitale della catastrofe spetta però a Roland Emmerich, che dal 1996 in poi porta al cinema rappresentazioni di disastri sempre più devastanti: Independence Day, l’ennesimo Godzilla (remake però del Risveglio del dinosauro), The Day After Tomorrow e 2012 sono solo alcuni dei successi di un regista il cui principale interesse sembra essere quello di stupire e ammaliare il pubblico con uno spettacolo di pura distruzione che si fa via via sempre più planetaria e biblica.

    Rispuntano anche le care vecchie meteore, principalmente con Armageddon di Michael Bay e Deep Impact di Mimi Leder; usciti nella stessa estate del 1998, i due film possono contare rispettivamente sulle spacconate del trivellatore Bruce Willis e sugli accorati appelli del Presidente USA Morgan Freeman, oltre naturalmente a una buona dose di computer graphics.

    Caratteristica che emerge sempre di più in queste pellicole è la voglia di intrattenere senza pensieri il pubblico, limitando al minimo riflessioni sulla trama ed empatia con i personaggi e spostando l’attenzione esclusivamente al livello visuale: il digitale è qui per divertirci, pare essere il messaggio e i trailer di questi film sembrano i demo cinematici dei videogame. Certo emerge una buona dose di apocalittico millenarismo, specie in The Day After Tomorrow e 2012, che fa pensare a una preoccupazione ormai condivisa nell’immaginario collettivo per i disastri naturali e i cambiamenti climatici (e per inesistenti profezie di popoli antichi, astutamente utilizzate come richiamo commerciale); ad attirare gli spettatori contribuisce certamente anche un bisogno catartico; ma ciò che appare più evidente è la volontà voyeuristica di apprezzare la catastrofe fin nei minimi dettagli, ad “alta risoluzione”, di contemplare le meravigliose e apparentemente infinite possibilità del digitale.

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