• Come riconoscere un film catastrofico

    L’interminabile attesa

    Titanic

    Scrive Umberto Eco (Come riconoscere un film porno, in Il secondo diario minimo) che per stabilire se un film sia pornografico bisogna misurare i tempi di spostamento dei protagonisti; se eccedono il desiderato, il film è pornografico. Questo perché se per tutto il tempo si mostrasse gente che si accoppia, il film risulterebbe noioso; è invece l’attesa che rende interessante la trasgressione.

    Un criterio simile può essere adottato per i film catastrofici: se si mostrassero catastrofi dall’inizio alla fine della pellicola, il pubblico si annoierebbe presto. Ecco perché prima di poterci godere l’evento disastroso dobbiamo attendere anche un’ora prima che questo si verifichi. Un disaster movie è immancabilmente caratterizzato da una introduzione (lunga e a volte tediosa) dei personaggi e delle loro storie; apprendiamo le possibili cause del disastro, le eventuali colpe, impariamo a empatizzare con buoni e cattivi. Con la promessa della catastrofe siamo disposti a sorbirci melense storie d’amore, noiosi spot di compagnie aeree e persino insopportabili suore canterine.

    Prima e dopo

    The Poseidon Adventure

    I personaggi vanno incontro alla catastrofe a partire da una situazione di quiete, quando non addirittura di divertimento. Può essere l’inaugurazione di un grattacielo, il party di Capodanno a bordo di un transatlantico, una discesa sugli sci o anche la tranquilla monotonia del lavoro di ufficio. Il disastro arriva, il più delle volte improvviso, altre progressivamente, comunque inaspettato a travolgere (e qualche volta letteralmente a capovolgere) lo stato iniziale. Buona parte del film è focalizzata sulla rappresentazione della catastrofe con compiaciuta dovizia di dettagli.

    Eroi senza garanzia

    The Poseidon Adventure

    In genere il film si sofferma sulle peripezie di un piccolo gruppo di persone, che diventa a volte simbolo dell’intera società. Mente anonime comparse muoiono nella divertita indifferenza degli spettatori, il gruppo principale viene guidato verso la salvezza da leader carismatici, spesso persone comuni in situazioni straordinarie. Durante il percorso i personaggi andranno incontro a ostacoli di difficoltà crescente ed eventualmente al martirio. Non c’è alcuna certezza che tutti ce la faranno, anzi di solito solo pochi sopravvivono. Gli stessi eroi possono soccombere prima della fine del film per consentire agli altri di salvarsi. I protagonisti possono essere interpretati da stelle del cinema o da perfetti sconosciuti; nel primo caso fungono da attrazione per il botteghino; nel secondo favoriscono empatia e identificazione.

    Colpevoli gaglioffi

    The Towering Inferno

    Il disastro è quasi sempre colpa dell’uomo; a volte può essere a causa di un dolo (qualcuno che ha risparmiato sulla sicurezza per trarne profitto), altre di una colpevole trascuratezza (per esempio ignorare gli avvertimenti delle Cassandre del caso, scienziati o tecnici che siano). Qualche volta il gaglioffo è parte del piccolo gruppo di personaggi principali; in questo caso, può diventare vittima dello stesso disastro di cui è colpevole a beneficio della morale della storia; se si salva, magari sacrificando gli altri, è con ignominia.

    Disastri mancati

    Deep Impact

    Il disastro non sempre si verifica: a volte gli sforzi dei protagonisti diretti a evitarlo hanno successo; questo comporta una ovvia delusione tra il pubblico, che ha pagato il biglietto e rischia di non vedere soddisfatte le sue giuste aspettative. Si cerca quindi di infilare nel film disastri minori: per esempio si può spezzare una meteora nel tentativo di distruggerla, in modo che almeno una piccola parte possa intrattenere lo spettatore, precipitando sulla Terra e causando danni mondiali ma limitati.

    Born in the U.S.A.

    The Day After Tomorrow

    Quello del disaster movie è un genere tipicamente statunitense; di conseguenza sono statunitensocentrici i disastri. I luoghi colpiti sono spesso simboli degli U.S.A.: non si contano più le Statue della Libertà distrutte a vario titolo e le Californie devastate da terremoti.

    La morale è sempre quella

    The Hurricane

    Che si tratti di un naufragio, di un terremoto, di un vulcano, di un incendio, la lezione che viene trasmessa è immancabilmente la necessità degli umani di rispettare le leggi della natura, di non sfidare il destino o qualche divinità, di aiutarsi gli uni con gli altri, di non fare esplodere bombe sugli aerei e di non prendere l’ascensore durante un incendio. Qualunque tentativo didattico è comunque secondario rispetto alla volontà di mostrare un disastro pienamente godibile senza troppi sensi di colpa da parte del pubblico.

    Bambini

    Airport 79

    I bambini sono necessari per suscitare la tenera simpatia dei nonni e l’odio incondizionato di tutti gli altri spettatori. In genere piangono; nei casi peggiori sono insopportabilmente saccenti. Alla faccia della sicurezza, hanno accesso alla cabina di pilotaggio sui voli di linea. Purtroppo si salvano quasi sempre.

  • Le età della catastrofe (5) L’esaurimento del filone

    L'aereo più pazzo del mondo, di Zucker-Abrahams-Zucker

    Se non sono del tutto scontati i motivi del successo del filone catastrofico negli anni ’70, è decisamente facile spiegare i motivi del suo declino, che farà praticamente scomparire il genere dagli schermi fino al suo prepotente ritorno negli anni ’90.

    L’ipersfruttamento

    Praticamente ogni genere di disastro viene portato sullo schermo, anche più volte: incendi, naufragi, metoriti, valanghe, eruzioni vulcaniche, incidenti aerei, invasioni di insetti. I modelli finiscono, le situazioni si ripetono fin troppe volte e il pubblico si stanca dell’assenza di novità.

    La perdita di qualità

    Bastano alcuni prodotti scadenti per danneggiare l’immagine di tutto il genere. Sceneggiatori a corto di idee ed effetti speciali carenti decretano l’insuccesso commerciale di più di un film. Brutte storie che sfociano nel ridicolo, copioni noiosi o addirittura imbarazzanti, messe in scena a basso costo (in un genere in cui proprio gli effetti speciali fissavano nell’immaginario la situazione) allontanano progressivamente gli spettatori dalle sale.

    Nuovi modelli

    Già durante l’età d’oro del disaster movie compaiono pellicole che fanno invecchiare in poco tempo quello che fino a quel momento era lo stato dell’arte. Soprattutto la coppia George Lucas e Steven Spielberg rinnova il genere avventuroso e sf con nuove tecniche di ripresa, effetti speciali di nuovo tipo e azione serrata. Guerre stellari e Lo squalo si rivolgono a un pubblico più giovane e alla ricerca di eroi di tipo diverso, in grado di interpretare un linguaggio che mette insieme fumetto pop e letteratura “alta”.

    Pernacchie

    I cliché di un genere rischiano di diventare la sua tomba. Più di un film sberleffa l’intero genere catastrofico. L’aereo più pazzo del mondo da solo fa precipitare nel ridicolo tutti gli aerei della serie Airport e con essi anche la rappresentazione stessa del disastro, del panico e della drammaticità della situazione; l’impatto della catastrofe cinematografica sull’immaginario viene compromesso per anni.

  • Le età della catastrofe (4) Pericoli generici

    Locandina di Terremoto

    Il filone catastrofico sfrutta (e ben presto prosciuga) tutte le possibili fonti di disastro naturale: terremoti, eruzioni, incendi, valanghe, uragani. In alcuni momenti degli anni ’70 si poteva persino scegliere quale tipo di catastrofe andare a vedere sul grande schermo, tanta era l’abbondanza di produzione, anche se spesso di scarsa qualità.

    Se gli tsunami e gli alieni colpiscono regolarmente gli edifici e i monumenti simbolo degli Stati Uniti (la sola Statua della Libertà, insieme alla città di New York, viene travolta e distrutta innumerevoli volte), i terremoti si accaniscono prevedibilmente contro la West Coast. San Francisco viene storicamente e cinematograficamente devastata dal terremoto e dal successivo incendio ma spetta a Los Angeles la spettacolarizzazione di un disastro più volte annunciato e fortunatamente fino a oggi mai accaduto: the Big One, un gigantesco terremoto lungo la faglia di Sant’Andrea diviene il protagonista nel 1974 di Terremoto. Pur con grandiosi effetti speciali e sonori (il Sensurround dai potenti bassi che fanno tremare le poltrone dei cinema), il solito cast di stelle, da Charlton Heston ad Ava Gardner, il film non è certo un capolavoro ma ottenne un successo sensazionale, complice anche l’atavica paura su cui fa leva.

    Disastroso per gli incassi fu invece Città in fiamme, da ricordare più per i numerosi cameo di grandi attori (Henry Fonda tra tutti) che per… be’, per qualunque altro aspetto, a partire dal poco convincente incendio che colpisce un’anonima cittadina americana.

    Anche Roger Corman, storico produttore noto soprattutto per horror di serie B, si butta nel filone con il poco riuscito Valanga, che propone un non troppo convinto Rock Hudson ormai a fine carriera. Il film recupera filmati di repertorio di reali valanghe; curiosamente, alcune riprese verranno riciclate per un altro disaster movie, Meteor.

    La ricostruzione della gigantesca eruzione del Krakatoa è del 1969, in anticipo rispetto al boom del filone: Krakatoa, Est di Giava non è la prima e nemmeno l’ultima pellicola tratta dallo storico avvenimento. Ancora un vulcano inquieto compare in uno degli ultimi film prodotti dal master of disaster Irwin Allen, Ormai non c’è più scampo, di cui il protagonista Paul Newman ebbe a dire di avervi recitato solo per soldi.

    Uragano del 1979 è invece un inutile remake del ben più notevole omonimo del grande John Ford del 1937.

  • Le età della catastrofe (3) Inferni di cristallo e Inferni sommersi

    Poseidon Adventure Cast

    E’ soprattutto grazie al produttore e regista Irwin Allen che durante gli anni ’70 si consolida il filone catastrofico. Dopo aver abilmente sguazzato nel non facile mondo della fantascienza televisiva, Allen si guadagna il soprannome di “Master of Disaster” soprattutto con pellicole come L’avventura del PoseidonL’inferno di cristallo. Il pubblico contempla avidamente le sue mise-en-scène, spettacolari fallimenti dell’opera umana che risentono della sconfitta statunitense in Vietnam.

    Nell’Avventura del Poseidon un vecchio transatlantico viene investito e capovolto da una gigantesca onda anomala durante i festeggiamenti della notte di Capodanno. La maggior parte dei passeggeri si trova intrappolata nella sala principale. Alcuni, guidati dal reverendo Frank Scott (Gene Hackman), comprendono che i soccorsi possono venire unicamente dal fondo della nave, che ora è l’unica parte non sommersa. Mentre gli altri rimangono nella sala, andando incontro a un tragico destino, il gruppo affronta tra mille difficoltà e pericoli il percorso verso una salvezza che solo alcuni raggiungeranno, anche grazie al sacrificio dei compagni: secondo il canone del disaster movie persino le star sono a rischio: Shelley Winters defunge dopo aver generosamente aiutato gli altri e lo stesso Scott si sacrifica per il bene del gruppo.

    Per L’avventura del Poseidon Allen inventa set completamente capovolti, dove pavimenti e soffitti sono invertiti. La via di fuga, tra l’acqua che allaga corridoi e scale e il fuoco di tanti piccoli incendi, diventa una salita verso il fondo della nave, un mondo al contrario che condanna la presunzione e l’avventatezza umana nel modello babelico fatto di scontri continui tra i personaggi.

    Sempre il mito di Babele domina l’Inferno di cristallo, altra superproduzione all-star (in prima fila Paul Newman e Steve McQueen, ma anche Richard Chamberlain, Faye Dunaway e due vecchie glorie come William Holden e Fred Astaire) che vede un immaginario grattacielo di più di cento piani trasformarsi in una gigantesca torcia la sera della sua inaugurazione. Con svariate nomination agli Oscar e tre aggiudicati, L’inferno, diretto da John Guillermin con la collaborazione dello stesso Irwin Allen per alcune sequenze, vede il trionfo della spettacolarità sulla trama, invero non priva di buchi e imprecisioni, pur in una sceneggiatura di ottimo impatto; il reale protagonista è il fuoco, che si presenta inaspettato, invade uffici e abitazioni, si arrampica sui soffitti, si infila nelle trombe delle scale e negli ascensori, divampa da dietro una porta che sembra sicura e non arretra di fronte agli sforzi dei pompieri. Sequenze da antologia e dialoghi efficaci contribuiscono a far entrare l’incendio del grattacielo nell’immaginario; chi ha visto questo film non può non ricordarlo guardando la fotografia del Falling Man, una delle vittime dell’attentato al Word Trade Center dell’11 settembre 2001 che si sono lanciate dalle finestre in un estremo tentativo di fuggire alle fiamme.

    Allen torna al Poseidon qualche anno dopo, dirigendone lui stesso il seguito, L’inferno sommerso; ma il genere catastrofico è ormai in declino e il film riceve una pessima accoglienza, come il precedente Swarm e il successivo Ormai non c’è più scampo, pellicole imbarazzanti che segnano la fine della carriera di Allen.

  • Le età della catastrofe (2) Airport e i suoi fratelli

    Manifesto di Airport, di George Seaton

    Gli anni ’70 si aprono con il primo vero disaster movie. Tratto dal bestseller di Arthur Hailey, Airport rispetta in pieno tutti i canoni del genere: un disastro da evitare, eroi pronti a sacrificarsi, un cast di star, un comportamento quanto meno avventato che mette in pericolo una meraviglia della tecnologia.sisater movie

    Mentre un aeroporto negli Stati Uniti si trova ad affrontare l’emergenza di una fitta nevicata, un disperato suicida fa scoppiare una bomba su un Boeing, nella insana speranza di lasciare il denaro dell’assicurazione sulla vita alla moglie. Nonostante lo squarcio dell’esplosione, la conseguente decompressione e le avverse condizioni meteorologiche, il pilota riesce a portare l’aereo a terra salvando la vita dei passeggeri.

    Il film si basa ovviamente sulla diffusa fobia per un mezzo di trasporto che proprio in quegli anni è diventato popolare ma con Dean Martin ai comandi e Burt Lancaster a dirigere l’aeroporto c’è ben poco da temere: il film ci mostra un’America efficiente e pronta a reagire di fronte alle difficoltà. L’eroe, per quanto solitario nella situazione, non è isolato ma punta di un sistema unico e organizzato, prodotto da una società che crede nelle proprie capacità; il pilota può contare sull’aiuto da terra; i dubbi provenienti dall’andamento della guerra in Vietnam non sono ancora emersi, almeno non nel mainstream.

    Per quanto quasi tutti impegnati in qualche love story, i protagonisti sono pronti a interrompere le sottotrame amorose per dedicarsi al dovere. In questo come in altri film del genere il disastro imminente interrompe (per fortuna, si potrebbe dire) una serie di narrazioni introduttive che in generale tendono allo stucchevole: ci vuole una buona mezz’ora di storielle di contorno prima che al pubblico venga mostrata la minaccia principale, l’uomo che prepara la bomba, e bisogna attendere ancora un’ora prima che il disgraziato riesca a mettere in atto il suo proposito.

    Se il crooner Dino non può evitare l’esplosione (ma non per colpa sua: era quasi riuscito a dissuadere il suicida), riporta comunque (quasi) tutti a terra sani e salvi. Un disaster movie vive (anche) di attese di catastrofi mancate.

    Il successo di Aiport genera una serie di sequel, non legati tra loro (eccezion fatta per il personaggio interpretato da George Kennedy); sceneggiature sempre più imbarazzanti espongono progressivamente l’usura del modello e alla fine il pubblico perde interesse; l’ultimo del filone “ufficiale”, Airport ’80 (titolo italiano per The Concorde… Airport ’79) si rivela un flop. L’affossamento definitivo viene dalla parodia L’aereo più pazzo del mondo del fortunato trio Zucker-Abrahams-Zucker: il film riprende uno per uno gli stilemi del genere, dalle situazioni ai personaggi, portandoli all’eccesso della caricatura; a quel punto diventa quasi impossibile guardare la serie originale degli Airport senza lasciarsi sfuggire una risata.

    Con gli Airport non finisce tuttavia il disastro aereo (presente in molti generi, dall’azione alla guerra), che assume via via nuove forme, compresa quella della ricostruzione: gli agghiaccianti Alive, sulla sorte dei passeggeri del volo schiantatosi sulle Ande nel 1972, e United 93, sul quarto aeroplano dirottato l’11 settembre 2001, sono due brillanti esempi di disaster docudrama.

  • Le età della catastrofe (1) Prima degli anni ’70

    San Francisco, di W.S. Van Dyke II

    Percorrere la storia del filone catastrofico (o, più precisamente, del genere disaster movie) significa percorrere l’intera storia del cinema: la catastrofe è un tema costantemente presente fin dai primi anni della cinematografia, vuoi per esigenze documentaristiche, vuoi per la spettacolarità insita nel mezzo.

    Possiamo tuttavia distinguere tre fasi principali:

    • prima degli anni ’70;
    • gli anni ’70/’80: l’era del disastro;
    • dagli anni ’90 a oggi: l’era digitale.

    Ogni fase presenta caratteristiche distinguibili. Nella prima il disastro è in genere un elemento funzionale della trama ma senza necessariamente esserne il principale. Nella seconda il disastro diviene oggetto-ragione della rappresentazione. Nella terza, grazie agli effetti speciali digitali, il disastro diviene sempre più catastrofe di dimensione mondiale, graficamente dettagliatissima e di puro intrattenimento.

    La catastrofe è parte della storia del cinema fin dagli inizi. Fire! è un film muto inglese del 1901 che mostra un incendio e l’intervento dei vigili del fuoco con annesso salvataggio. Del 1913 è invece la prima versione cinematografica (italiana) di Gli ultimi giorni di Pompei, ricostruzione romanzata dell’eruzione del Vesuvio del 79.

    Catastrofiche o quanto meno disastrose sono le conclusioni di svariati film dell’epoca muta, basti pensare alla distruzione della città sotterranea del fantascientifico e visionario Metropolis di Fritz Lang.

    Del 1931 è il primo film sul tema “corpo celeste in catastrofica rotta verso la Terra”: in La fin du monde il regista francese Abel Gance ci mostra come il pianeta si prepari all’imminente impatto con una cometa. All’epoca ovviamente non c’è ancora a disposizione una salva di missili nucleari come in Meteor, Bruce Willis e Robert Duvall non sono disponibili per l’estremo sacrificio come accadrà rispettivamente in Armageddon e in Deep Impact; quindi agli sventurati personaggi di La fin du monde non resta che adoperarsi per la pace, pregare o gozzovigliare; il finale è inevitavilmente moralista: con la catastrofe evitata per un soffio (la cometa si limita a sfiorare il nostro pianeta, causando danni limitati) si realizza l’unione mondiale delle nazioni.

    Il vero e proprio sbarco dell’industria hollywoodiana nel genere si ha nel 1936 con San Francisco, melodramma con cast stellare che culmina con il terremoto e il conseguente incendio che nel 1906 semidistrussero la città californiana: tra l’ira di Dio per la “città della perdizione”, le love story, l’ottimismo della ricostruzione da parte di un’umanità redenta e una morale american way un po’ stucchevole, rimane potente la rappresentazione della catastrofe, con effetti speciali accurati che ben resistono all’età della pellicola.

    Dell’anno successivo è il notevole Uragano di John Ford, da un romanzo di James Norman Hall: condanna del razzismo ai tempi del colonialismo, tra i bravi protagonisti spicca ovviamente il lungo uragano finale del titolo, deus ex machina che risolve la situazione in modo biblico travolgendo i cattivi e liberando i buoni.

    Tra il 1943 e il 1958 vedono la luce ben tre versioni cinematografiche dell’affondamento del Titanic, delle quali vale la pena di ricordare Titanic, latitudine 41 Nord, ottima e fedele ricostruzione al limite del documentaristico dal costo di quasi due milioni di dollari (dell’epoca!).

    Anche la fantascienza si nutre di catastrofismo: il cataclisma cosmico di Quandi i mondi si scontrano e soprattutto l’invasione aliena della Guerra dei mondi (che già aveva terrorizzato gli americani nella versione radiofonica curata da Orson Welles) dominano gli anni ’50, alimentandosi della paura del “pericolo rosso”. Nei primi anni della Guerra fredda nasce anche il filone post apocalittico, che mostra le conseguenze di un ipotetico conflitto nucleare: tra il serio (L’ultima spiaggia di Stanley Kramer) e il simpaticamente fracassone (Il mostro del pianeta perduto di Roger Corman), il post apocalittico arriva presto a costituire un genere a sé.

    La prima èra dei disaster movie si conclude nel 1969, con lo spettacolare Krakatoa, est di Giava, ispirato all’eruzione del vulcano polinesiano del 1883. Il pubblico è ormai pronto per l’intrattenimento commerciale della catastrofe di celluloide che dominerà gli anni ’70.

  • Un saluto a Gerry Anderson

    Un saluto a Gerry Anderson

    Una scena di Spazio 1999

    Gerry Anderson se n’è andato. Noto principalmente come produttore dei Thunderbirds, per me è stato soprattutto il creatore di quel magnifico ricordo d’infanzia che è Spazio 1999.

    Nato originariamente come uno spin-off di UFO, Spazio 1999 visse in realtà di vita propria. La storia cominciava il 13 settembre 1999, quando una catastrofica esplosione nucleare sulla Luna spediva il nostro satellite e la Base Lunare Alfa che vi si trovava fuori dall’orbita terrestre, alla deriva nel cosmo.

    Nato poco prima della rivoluzione portata da Guerre stellari, il telefilm risentì dell’influenza di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick: il personale della base non era costituito da militari, come nella sf alla Star Trek, ma da scienziati e tecnici; gli incontri con i misteri del cosmo si concludevano spesso con l’impossibilità di intervenire o con il fallimento degli umani di fronte a realtà più grandi di loro che a stento potevano comprendere.

    Prevaleva un approccio scientifico (per quanto le teorie del professor Bergman fossero quanto meno approssimative), l’osservazione piuttosto che la conquista, unito al desiderio di trovare una nuova casa e a un certo fatalismo (gli alfani non avevano modo di controllare la rotta lunare o di tornare a casa).

    Se il fascino della serie era dovuto sicuramente all’impatto sull’immaginario della futuribile e credibile tecnologia (niente teletrasporto ma rozze e funzionali astronavi Aquila, a cui si arrivava mediante una metropolitana interna che collegava i diversi settori della base) e del look (interni completamente bianchi, con finestre che mostravano il desolato suolo lunare, arredo e accessori di design anni ’70, lunghi corridoi inframezzati da colonnine con monitor e sistemi di comunicazione, uniformi che si differenziavano solo per il colore della manica che indicava il settore di competenza), grande influenza la ebbero anche i personaggi meravigliosamente delineati, dal comandante John Koenig (il bravissimo Martin Landau) al professor Victor Bergman, alla dottoressa Helena Russell fino al capitano Alan Carter.

    Mi ricordo le Aquile in volo. Mi ricordo il laser e il comunicatore, ricostruiti pazientemente con il Lego nei pomeriggi a casa dopo la scuola. Mi ricordo l’immane esplosione che iniziava il viaggio della Luna nell’universo. Mi ricordo la Russell e Koenig seduti a riflettere su quello che accadeva, in inquadrature simili a quella in cima a questo post. Mi ricordo i nomi di Gerry e Sylvia Anderson visti decine di volte nei titoli di coda di ogni episodio, quando non restava altro da fare che attendere il giorno o la settimana successivi per una nuova avventura.

    Edit: il primo episodio, direttamente dal canale RAI di YouTube:

    http://www.youtube.com/watch?v=DfL4NV0pHFs

  • Mistress For Christmas

    Get a date with the woman in red
    Wanna be in heaven with three in a bed

    AC/DC, Mistress For Christmas

    Si svegliò due giorni dopo Natale in una casa abbandonata con la testa che gli scoppiava.- Che cavolo… ? Eppure non ho bevuto!
    Tentò di alzarsi. Annaspò cercando a tentoni un appiglio. Lo trovò.
    Aggrappandosi a una sedia, lentamente Babbo Natale si mise in piedi.
    Rimase alcuni minuti appoggiato alla spalliera della sedia prima di osare muovere qualche passo.
    – Allora, vecchio Babbo, cerca di stare calmo e prova a ricordare.
    Per prima ricordò la slitta. L’aveva lasciata su un tetto, appoggiata sulla neve, con le renne a riprendere fiato. La slitta era probabilmente al sicuro, anche se non sapeva di preciso dove.
    Poi nella sua memoria confusa riaffiorò il camino.
    Si era calato per il camino con il suo sacco di regali ormai quasi vuoto; era una delle ultime case da visitare. Era quasi al termine della notte.
    Nel camino c’era qualcosa. O qualcuno.
    Si sedette. Ricordava.
    Nella discesa aveva sentito freddo. Non che fosse strano per lui: per quanto lavorasse da sempre in una delle notti più fredde dell’anno non si era mai abituato alla temperatura. Questo però era un freddo diverso. Era un freddo che scendeva lungo il collo ed entrava dritto nel sangue, gelandolo.
    Si era voltato. Babbo Natale nel camino si era voltato e aveva visto l’origine del freddo che di colpo l’aveva preso.
    Seduto sulla sedia nella casa misteriosa si portò la mano al collo, cercando qualcosa che sapeva doveva essere lì.
    Due segni, piccolissimi. Due minuscoli fori nel collo, là dove una vampira nascosta nel camino l’aveva morso.
    – Assurdo! – si disse – Sto diventando vecchio, ecco tutto.
    Si alzò nuovamente. Si diresse verso la finestra di fronte.
    L’aprì.
    La notte era finita. Il sole dell’alba entrò di colpo, frantumando il buio.
    – Vecchio e stupido! – fu l’ultimo pensiero di Babbo Natale mentre bruciava.

  • L’eterno ritorno dei morti viventi

    Alcuni recenti e purtroppo tragici episodi di cronaca riguardanti casi di cannibalismo hanno avuto come curioso effetto collaterale quello di scatenare una curiosa reazione sui social media, in particolare Twitter, portando un fiume di commenti che vanno dal preoccupato all’ilare su una ipotetica “apocalisse degli zombi”.

    Tralasciando il delirio da “fine del mondo” di alcuni e il non proprio raffinato umorismo di altri, è interessante osservare come eventi non nuovi, anche se fortunatamente rari, come gli sporadici casi di “mostri” antropofagi si siano collocati nell’immaginario dei morti viventi. Un ruolo non indifferente ha avuto l’apparente caratteristica “epidemica” di episodi slegati tra loro, tanto che l’agenzia statunitense CDC ha addirittura diramato un comunicato per negare l’effettiva esistenza di un “contagio zombesco” (non siamo all’incursione radiofonica di Orson Welles con la sua versione della Guerra dei mondi, ma quasi); paradossalmente proprio il CDC aveva lanciato una campagna per il pronto soccorso che usava come immagine proprio gli zombi.

    A livello almeno di immaginario cinematografico, i morti viventi sono tra noi da decine di anni (senza considerare gli antenati non-morti a vario titolo come vampiri o mummie), a partire dallo storico La notte dei morti viventi di George A. Romero fino ai più recenti Dead Set (che li cala nella quotidianità del reality televisivo) e The Walking Dead (variazione fumettistica poi tradotta in serie tv di successo); sono insomma elementi popolari ormai stabilizzati e permamenti, dal comportamento noto e ben definito.

    Il fascino dell’apocalisse zombi affonda le radici anche in altri elementi suggestivi: il collasso della civiltà, la perdita o il sovvertimento delle regole, la fine (o l’estremizzazione) di una società costrittiva e punitiva o semplicemente consumistica (vedi Zombi sempre di Romero). Tutto questo incontra poi la passione un po’ paranoide per il cosiddetto survivalism, che di epoca in epoca motiva in maniera diversa la sua esistenza (dalla guerra atomica alle carestie, alla fine delle risorse) ma comunque rimane associato all’esigenza di “essere pronti” a fronteggiare un ipotetico crollo della civiltà umana seguita da una sua quasi totale estinzione; qualcuno ha anche pensato di farsi pubblicità (con cinica ironia) sfruttando il panico da zombi per vendere munizioni (purtroppo vere). A questo si associano anche i flash mob fracassoni e divertenti di cosplayer truccati a tema living dead. Insomma, un immaginario catastrofico che viene vissuto anche socialmente (per gioco o per fobia) nel tentativo forse di preservare la propria umanità, resistere di fronte a una uniformizzazione che intacca il senso di individualità.

    Per gli appassionati, esiste anche un esempio di studio universitario del contagio a tema (serio: serve a illustrare un modello matematico di diffusione delle epidemie).

  • Estetica del riuso: Hardware

    Volendo riassumere la trama di Hardware di Richard Stanley in una frase si potrebbe dire “un robot perseguita una ragazza per ucciderla”. Sono evidenti le analogie con Terminator, ma Hardware differisce dal modello di James Cameron per le radicali scelte stilistiche.

    Ambientato in un futuro post apocalittico, dove buona parte del pianeta è ridotta a un deserto nucleare, il film di Stanley è girato quasi totalmente in un appartamento in cui una giovane artista assembla una scultura utilizzando scarti e parti di recupero, tra cui la testa di un robot ritrovata tra le sabbie radioattive. Il robot è in realtà una macchina bellica progettata per uccidere, un’arma militare che appena possibile si autoripara con quello che trova in casa e comincia la sua missione distruttiva.

    Il finale è abbastanza prevedibile (e il film non è certo privo di difetti) ma il punto forte di Hardware non sta tanto negli avvenimenti quanto nell’estetica e nel modo di raccontarli. L’ambientazione cyberpunk (iconografia a tutto tondo, dall’abbigliamento alla musica), in cui tecnologia e biologia si miscelano indissolubilmente, si riflette nella scenografia metallica e nebbiosa, dove meccanica ed elettronica si confondono nelle pareti domestiche come nei giganteschi cumuli di spazzatura per la strada.

    Il montaggio serrato alterna le riprese della scena con innesti video: monitor di computer, telecamere di sorveglianza, videotelefoni e videocitofoni, segnali e interferenze tv, videoclip industrial, soggettive del robot che mostrano una realtà catodica e digitale “diversa”, familiare e aliena al tempo stesso, che smonta e ricostruisce la visione in un flusso continuo di dati.

    In un film che, per necessità di budget, si deve arrangiare con quello che c’ è a disposizione, in un mondo disfatto che sembra vivere di riciclo (dalla megalopoli cosparsa di rifiuti in parte riutilizzati alle sculture della protagonista) anche l’immagine si riduce a qualcosa di già ripreso da qualcos’altro, diventa una proiezione stroboscopica di frammenti riutilizzati. La realtà, sia essa vicina o remota, si svela attraverso la mediazione elettronica. Solo l’incontro/scontro fisico, il corpo a corpo sessuale o bellico riportano alla percezione im-mediata.

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