Tag: fine del mondo

  • Perché ci piacciono i film catastrofici?

    Perché ci piacciono i film catastrofici?

    La catastrofe è una di quelle forme universali inconsce che Jung indica come archetipi dell’immaginario collettivo, una presenza costante fin dai miti sull’origine del mondo. Nulla di sorprendente quindi se alla rappresentazione della catastrofe sono legate molte forme d’arte e naturalmente i media spettacolari come cinema e televisione.

    Deep Impact

    Ma che cosa ci spinge a guardare un film catastrofico? Che cosa cerchiamo in uno spettacolo in cui persone come noi, per cui dovremmo provare empatia e compassione, sono esposte a tremendi pericoli, perdono la vita in modi più o meno orribili in incendi, terremoti, impatti con meteoriti, esplosioni nucleari?

    Catarsi

    Independence Day

    Esorcizziamo le nostre paure verso fenomeni al di là del nostro controllo che hanno una anche remota ma pur sempre esistente probabilità di verificarsi. Non solo: abbiamo la sensazione di viverli davvero e di uscirne illesi. Nei film apocalittici la distruzione mostrata è talmente eccessiva da poter essere tranquillamente ignorata come pericolo effettivo e apprezzata come puro spettacolo, tendenza sempre più in voga nella nuova ondata digitale del filone, da Twister a 2012. Se una nave che affonda è una possibilità remota del reale, un mondo distrutto da un attacco alieno ci sembra più accettabile di quello poco rassicurante che emerge nei telegiornali nei momenti di crisi internazionali. Inoltre, guardare la sofferenza e la morte di personaggi dello schermo per cui proviamo una breve ed evanescente empatia ci rende in qualche modo più sopportabile la coscienza della fine, nostra o altrui.

    Vedere l’impossibile

    The Day After Tomorrow

    Se il cinema è divertire, divergere dal quotidiano per esplorare le possibilità della visione impossibile, fa parte del divertimento la contemplazione della catastrofe: un film ci rende visibili, condensandoli in pochi minuti, cambiamenti geologici o climatici, di cui veniamo informati dalla scienza, reali ma non percepibili e comunque distanti, che avvengono in milioni di anni, definitivamente al di fuori della nostra portata temporale. Contemporaneamente, possiamo assistere da un luogo sicuro, la nostra poltrona, a fenomeni letali e terrificanti in modo dettagliato e iperrealista. Possiamo in definitiva cavalcare il tempo, guardare in faccia la morte, contemplarla e sopravvivere senza correre in realtà alcun rischio.

    Didattica

    The Day After

    Alcuni film catastrofici sono percorsi di iniziazione e sembrano riservare saggi consigli per la sopravvivenza: ci aspettiamo insomma di ricavare un insegnamento o ci illudiamo della sua utilità, per esempio che comportamento adottare in un palazzo in fiamme, durante un naufragio o un fallout nucleare, e al tempo stesso immaginare come ragiremmo in una situazione estrema. Un taglio docufiction, benché più inquietante, rincuora la nostra voglia di catastrofe attribuendola alla necessità di apprendere. Al film è delegata in parte l’antica tradizione orale che comprendeva la narrazione di terribili prodigi, immani distruzioni, castighi divini ma anche la scuola di sopravvivenza ai pericoli quotidiani..

    Spettacolo

    Jurassic Park

    Dall’Inferno di cristallo a Jurassic Park, passando per svariati Godzilla, i film catastrofici sono il luogo prediletto per la sperimentazione degli effetti speciali. Una spinta ad andare al cinema è ammirare lo stato dell’arte di trucchi che non sono limitati al confine irreale della fantascienza ma si calano nel mondo reale; vedere la distruzione un luogo familiare ci colpisce molto di più di quella di un pianeta di fantasia. Il pubblico desidera effetti sempre migliori e sempre più disastrosi, che surclassino ogni volta i precedenti: l’esagerazione della spettacolarità diventa spesso l’unico scopo, prevaricando su trama, recitazione ed eventuali messaggi.

    Sadomasochismo

    L'inferno di cristallo

    Proviamo paura e piacere nel vedere la sofferenza altrui? Se sì, un film catastrofico soddisfa la nostra componente sadomasochistica. Possiamo soffrire insieme ai nostri eroi, gioire per la scomparsa dei cattivi di turno, spesso travolti da un disastro da loro stessi provocato, immaginando di provare le loro stesse sensazioni di pericolo, angoscia e terrore. In questo senso funzionano meglio film basati su eventi fittizi che non quelli che ricostruiscono reali accadimenti storici, perché i primi non inducono il senso di rimorso che rischiamo di provare con i secondi.

    La catastrofe parla al corpo

    L'avventura del Poseidon

    Il nostro corpo reagisce, con aumento del battito cardiaco e rilascio di adrenalina, ai momenti di tensione, anche se simulata. Il film con effetti speciali da pugno nello stomaco viene visto fisicamente prima ancora che meditato e rielaborato. In qualche modo quindi il nostro corpo utilizza lo spettacolo per allenarsi alla reazione.

    Millenarismo di comodo

    The Walking Dead

    La catastrofe risolve i problemi della vita quotidiana: ci permette di ignorarli (di-verte) ma anche di pensare che sarebbero completamente superati in un mondo post catastrofico che, benché peggiore, ci metterebbe a disposizione un diverso grado di libertà. Nel film apocalittico vengono spesso soppressi o sovvertiti convenzioni sociali, norme e doveri: le circostanze eccezionali, la necessità della sopravvivenza e la distruzione dell’ordine costituito ci autorizzano al furto, all’uso delle armi, alla difesa estrema e primitiva.

  • Oltre il Cyberpunk: le architetture postumane di Tsutomu Nihei

    Blame

    Tsutomu Nihei è un mangaka che mette a dura prova la lettura da parte degli otaku più accaniti. La storia del suo Blame! appare all’inizio incredibilmente complessa e fumosa; in realtà la si scopre poi essere quasi inesistente: si tratta solo di un espediente per trascinare il lettore attraverso duemila pagine di immagini, con pochi e per lo più misteriosi dialoghi. Ciò che affascina non è lo svolgersi di una trama bensì l’accumulo di ambienti e situazioni sempre nuove e sorprendenti. Il mondo di Blame! è il prodotto di innumerevoli mutazioni: la società si è frammentata lungo i piani di una megalopoli stratificata, che sale da profondi abissi di acciaio e cemento verso altissime torri che si perdono tra le nuvole; ogni volta che crediamo di aver raggiunto la cima scopriamo, come in una specie di arcade, di aver solo superato un livello e che un altro ci attende.

    Gli occupanti di questo specie di labirinto di Escher sono i rappresentanti di una nuova specie di umanità o forse solo una sua breve appendice sulla percorso che porta all’estinzione. Ci sono piccole comunità regredite a un livello medievale mentre altre appaiono ancora vivere immerse in un’alta tecnologia, anche se di recupero. Individui isolati sopravvivono in modi imprecisati, a volte prigionieri di macchine che perpetuano all’infinito le loro funzioni ormai prive di scopo, come la donna mantenuta in vita da un dispositivo di inseminazione che la costringe al contempo a partorire all’infinito. Tutto è riciclato o riadattato, nulla di nuovo si scopre o si produce ma si vive del residuo. Non vi è neppure spazio per aspirazioni umane: l’agire è motivato solo dalla sopravvivenza e dall’adempiere a missioni di origine remota che potrebbero essere ormai inutili. L’interazione sociale è ridotta al minimo indispensabile, semplice scambio di indicazioni e informazioni pratiche, se non velate minacce o aperte dichiarazioni di ostilità: un oltre vita che pare uscito dal trittico di Bosch senza alcun accenno però a un paradiso.

    Blame

    Ogni distinzione tra umano e macchina sembra impossibile: chiunque può rivelarsi indifferentemente composto di carne o metallo, biologico o elettronico; il confine tra naturale e artificiale è caduto e ha perduto ogni senso. Anche la stessa corporeità viene superata da esseri mutaforma e da rappresentazioni olografiche viventi.

    Tutta questa postumanità scompare di fronte alle architetture gigantesche che dominano le tavole, vero oggetto della rappresentazione di Nihei: quello di Blame! è un panorama interamente artificiale, dove ogni spazio disponibile è edificato, composto esclusivamente da immensi blocchi di cemento, tubi, macchinari in cui si aprono finestre, scale, condotti, enormi caverne o stretti cunicoli. Se protagonisti e comparse difettano di profondità e di uno spessore psicologico (non conosciamo praticamente nulla della loro vita e spesso rimaniamo indifferenti di fronte all’improvvisa apparizione di nuovi personaggi e alla loro altrettanto repentina e a volte inspiegabile scomparsa) è anche perché questi vengono costantemente schiacciati dalla sovrabbondanza edilizia: la vita umana è solo un residuo biologico dei suoi prodotti fuori controllo.

    Blame

    In Biomega, prequel di Blame! con cui in realtà condivide ben poco, vediamo una possibile nascita di questo nuovo mondo, dovuta apparentemente alla comparsa di un misterioso virus che trasforma gli uomini in una sorta di zombi mutanti in grado di fondersi tra loro e con gli edifici, causando la crescita incontrollata di biocittà di carne e roccia, fino a una catastrofe globale che coinvolge l’intero pianeta, deformandolo in una costruzione spaziale che si estende forse per milioni di chilometri.

    Biomega

    Gli ultimi residui di grandi zaibatsu tentano di riprendere il controllo prima della loro stessa dissoluzione; ma ogni tentativo pare destinato al fallimento di fronte all’ineluttabilità del destino e al predominio della materia.

    Il gigantismo delle strutture trionfa su tutto, come morte o neo-vita, monumento ed epitaffio dell’uomo: nulla sopravvive se non l’eterna mutazione e decadenza dell’architettura, non più ricerca ma pura autoriproduzione: come la Terra finale del ciclo di Anni senza fine di Simak, il mondo di Nihei è solo una gigantesca costruzione senza più scopo alcuno, condannata a perpetuarsi fino alla consunzione.

  • “Non per odio ma per amore”: gli “Orfani” della Sergio Bonelli

    Orfani

    Sono colpevole: da tempo immemore ormai non frequentavo la scuderia Bonelli, dopo essere stato per più di dieci anni un accanito fan di Dylan Dog dalle sue origini e successivamente aver soltanto dato uno sguardo distratto qua e là a successive creazioni come Nathan Never e Gea. Nel frattempo Sergio Bonelli se n’èandato e il mondo nato con Tex è fortunatamente arrivato indenne alla sua terza generazione. Su segnalazione del buon Giovanni Boccia Artieri ho scoperto Orfani con cui sto piacevolmente espiando le mie colpe.

    Da quasi un anno in edicola, Orfani è il primo albo del nuovo corso bonelliano, che prevede tra l’altro il rilancio di Dylan Dog in versione rivisitata, con ricambio di personaggi, stili e tematiche.

    Che Orfani sia una svolta per la Bonelli si vede sin dai primi numeri: un diverso segno grafico, per di più completamente a colori, il passaggio da episodi autoconclusivi a serie annuali (per il momento ne sono previste almeno due), un linguaggio più attuale, mutuato dal cinema, il tutto unito a una violenza inusuale per la casa editrice milanese.

    Orfani

    L’ambientazione è post-apocalittica, dopo che una catastrofe planetaria, un’immensa luce che ha travolto e distrutto buona parte dell’Europa, ha precipitato l’umanità in un’epoca oscura. Il mondo futuro è quello cupo di film come Terminator o Appleseed, costellato da macerie, mancanza di ordine, spietate persecuzioni e ribellioni. Ambienti e tecnologie macinano gli ultimi trent’anni di immaginario cinematografico, fumettistico e videoludico americano e giapponese, con citazioni continue, dai bambini-cavie di Akira di Katsuhiro Otomo ai marine ipertecnologici di Aliens di James Cameron. La grafica spettacolare trasforma gli ambienti in monocolori accesi, ora rossi, ora blu, con il freddo dello spazio e delle città in rovina che si contrappone al calore delle armi e degli amori.

    Orfani

    La storia scritta da Roberto Recchioni si svolge su due livelli temporali, seguendo l’evoluzione dei personaggi da bambini superstiti del disastro, orfani appunto, e contemporaneamente da adulti trasformati in macchine da guerra, attraverso uno spaventoso addestramento militare e le successive missioni.

    I dialoghi sono serrati, senza battute superflue, come se non ci fosse spazio per altro, con punte di cinico umorismo che si contrappongono alla freddezza degli ordini.

    Orfani

    I protagonisti, il cui folto numero all’inizio può disorientare, vengono via via falcidiati in un crudele gioco a eliminazione alla dieci piccoli indiani, in cui i personaggi scompaiono uno dopo l’altro, quasi mai per mano nemica quanto piuttosto per i severi allenamenti e i sempre più accesi scontri interni tra eroi che si trasformano da amici in rivali. Sì, perché tra i tanti dubbi che Orfani insinua il più tremendo è la scelta sulle parti da prendere: immersi nella liquidità postmoderna, senza indirizzo o fonti di informazioni affidabili, i “piccoli e spaventati guerrieri” si trovano spesso a dover decidere con chi schierarsi, a stabilire dove stiano il bene e il male, abbandonati nella guida e negli affetti, avendo come unici strumenti di discrimine se stessi e la propria coscienza.

    Orfani

    I confini dei sentimenti, lealtà, amicizia, amore, vacillano e si sfaldano di continuo, in un gruppo in cui prevalgono di volta in volta la scelta individuale, la fedeltà a un’istituzione o a un’ideale; ognuno segue una propria idea di verità, faticosamente costruita in un’infanzia di orrore e di duro addestramento oltre i limiti dell’umano, che costringe menti e corpi a una continua, dolorosa e a volte letale mutazione.

    Il lettore, travolto dai continui cambi di campo dei singoli personaggi, si trova a dover scegliere a sua volta da che parte stare; in Orfani non vengono proposte chiare e definitive distinzioni tra buoni o cattivi: siamo noi a decidere quali siano gli eroi e quali le canaglie e spesso un improvviso ribaltamento ci costringe a rivedere le nostre posizioni; sembra sempre esserci un’accusa, un errore e parimenti una scusa e una giustificazione per tutti. Ognuno opera a modo suo per la salvezza dell’umanità, anche attraverso l’annientamento altrui o la propria autodistruzione; nonostante il desiderio di vendetta imperi, in genere è l’amore, e non l’odio, a guidare le loro azioni.

    La pubblicazione è stata preceduta, altro fatto inedito per la Bonelli, dalla pubblicazione di un numero zero, una raccolta di illustrazioni scaricabile on line in formato Pdf che potete trovare sul sito ufficiale. Il resto, vivamente consigliato, in edicola o come arretrati.

  • Il giorno degli zombi come apocalisse laica

    La notte dei morti viventi

    La risurrezione è un tema che rientra per tradizione nell’esclusivo dominio della religione cristiana; è evidente quindi la carica eversiva del cinema nell’appropriarsi del giorno in cui i morti risorgeranno trasformandolo in un’apocalisse sostanzialmente laica. Non a caso, l’orrore in La notte dei morti viventi comincia in un cimitero, privato del suo ruolo rituale di luogo dell’eterno riposo.

    Nei film sugli zombi nulla di ciò che viene promesso dalla religione viene mantenuto, se non la pura “riesumazione alla vita” della carne. Ma questa rimane appunto carne, per giunta allo stadio della morte o della putrefazione; non c’è in genere alcuna parvenza di anima: a guidare gli zombi è solo una specie di istinto primordiale che li porta a divorare i viventi e a ripetere all’infinito gli stessi gesti di quando erano vivi.

    World War Z

    Per quanto alcuni sopravvissuti tentino di attribuire un’origine mistica agli avvenimenti (una famosa battuta di Zombi recita: “quando non ci sarà più posto all’Inferno, i morti cammineranno sulla terra”), le spiegazioni, quando possibili, sono quasi sempre scientifiche, dalle radiazioni della sonda venusiana della Notte dei morti viventi al virus di World War Z. Non solo: se per difendersi da fantasmi e vampiri sono possibili protezioni di origine pseudoreligiosa come croci ed esorcismi, per gli zombi esistono solo le armi, proprie o improprie, con cui colpirli, (possibilmente in testa, perché solo il livello istintivo del cervello funziona).

    Il giorno degli zombi

    L’assenza del divino e la conseguente implicita negazione di ogni speranza di una vita ultraterrena rafforzano il senso di “fine del mondo” atea, senza alcuna ipotesi consolatoria di origine religiosa: gli unici modi di sfuggire a un’esistenza di eterna non-morte sono restare vivi o assicurarsi di morire definitivamente; non a caso le promesse che si fanno tra loro i protagonisti di questi film sono garanzie di morte: un colpo in testa garantisce di non tornare come zombi. La pietà verso gli uomini non è soccorrere ma uccidere. La religione, con il suo rispetto per i morti, diventa addirittura un ostacolo alla salvezza, impedendo di oltraggiare i cadaveri dando loro il colpo di grazia.

  • Dead Set, o la televisione dei morti viventi

    Dead Set

    Nel 2008, a dieci anni dalla nascita dello show televisivo Big Brother, in Gran Bretagna esce Dead Set, miniserie horror scritta dal giornalista e umorista Charlie Brooker.
    Dead Set è una zombie apocalypse ambientata quasi completamente nella casa di Big Brother; la serie è stata trasmessa per la prima volta da Channel 4, la stessa emittente che mandava in onda il Grande Fratello inglese, e ha visto l’autoironica partecipazione di alcuni dei protagonisti dello show originale. La trama segue l’impianto classico del genere, con la rapida diffusione dell’epidemia che provoca la trasformazione della popolazione in morti viventi (nella fattispecie quelli che corrono) e il successivo assedio dei pochi superstiti in uno spazio ristretto, appunto la casa di Big Brother.
    Apparentemente nulla di nuovo se non fosse appunto per l’ambientazione, che trasforma il film di genere in una spietata satira della reality tv e del suo pubblico, e per la forte carica di violenza splatter, insolita per un prodotto televisivo, che fa schizzare sangue e frattaglie su pavimenti, pareti e obiettivi delle telecamere.

    Dead Set
    Se nel ciclo degli Zombi di George A. Romero i morti viventi sono una metafora della società (di volta in volta punitrice, consumista, militarizzata), qui diventano incarnazione del pubblico televisivo, inconsapevole complice della sua stessa compiaciuta ed entusiastica autocannibalizzazione; un pubblico ridotto a massa per cui la televisione produce e manda in onda una programmazione tagliata sul minimo comune denominatore, a incontrare il gusto della maggioranza; un pubblico che prova al tempo stesso piacere e disgusto a osservare, partecipare e in definitiva a osservarsi.
    A poco o nulla valgono i tentativi di resistere dei superstiti, dalle barricate nella casa fino alla cinica trovata del produttore di usare gli stessi corpi smembrati dei protagonisti dello show come succulenta esca per gli zombi, così come del resto faceva con loro quando erano vivi, dandoli in pasto ai telespettatori affamati della loro vita.

    Dead Set
    Il finale trova i morti viventi a fissare le telecamere ormai inutili del programma, con l’immagine che si replica all’infinito per l’eternità, con l’occhio, che è anche il logo di Big Brother, osservatore e osservato e la quotidianità dello show che diventa quotidianità della vita e ne decreta definitivamente la morte.

  • Cronache del dopobomba

    Panic in year zero

    La fine della seconda guerra mondiale ha segnato l’ingresso nell’immaginario della catastrofe atomica. Per la prima volta l’uomo si è trovato in possesso dei mezzi per potersi autocostruire una sorta di apocalisse laica, che non ha bisogno di accadimenti naturali o interventi divini.

    Anche il cinema è rimasto ovviamente influenzato dalle conseguenze effettive o possibili dell’era atomica: dalle spaventose esplosioni di Hiroshima e Nagasaki il cinema ha tratto cronaca, denuncia, impegno civile e, come è nella sua natura, drammatizzazione e spettacolo.

    L’incubo atomico compare in innumerevoli pellicole; siano queste ricostruzioni storiche, ipotesi future o divertenti e fracassoni Kaiju eiga, si tratta comunque di documenti che testimoniano come la minaccia atomica in tutte le sue forme abbia fatto parte di una coscienza collettiva ampiamente condivisa nel periodo della Guerra fredda.

    Il filone post apocalittico atomico è dominato dall’illustrazione del dopobomba: le conseguenze del fallout nucleare, la sofferenza e la disperazione dei sopravvissuti, la difficoltà della vita quotidiana nel nuovo medioevo sono tutte caratteristiche della retorica del genere.

    L'ultima spiaggia

    L’ultima spiaggia di Stanley Kramer narra di un sommergibile americano che, qualche tempo dopo la terza guerra mondiale, vaga alla ricerca di luoghi ancora vivibili in un pianeta avvelenato dalle radiazioni. La missione è però destinata al fallimento: non ci sono più posti sicuri e il mondo è ormai un deserto; tutti i protagonisti muoiono uno dopo l’altro, in incidenti o suicidandosi; dettaglio amaro e ironico, quello che sembrava un ultimo segnale di vita si rivela essere una bottiglia di Coca-Cola che sbatte, sospinta dal vento, contro il tasto di un telegrafo.

    Il pianeta delle scimmie

    La saga del Pianeta delle scimmie, iniziata con il film omonimo da Franklin J. Schaffner, ci porta a secoli di distanza nel futuro, dove quello che sembra all’inizio un remoto pianeta, dominato da scimmie evolute, si rivela essere la Terra molto tempo dopo la guerra atomica. L’invettiva finale pronunciata da Charlton Heston di fronte a quello che rimane della Statua della Libertà è uno dei momenti più celebri della storia del cinema.

    The Day After

    Vero caso televisivo, The Day After, da noi proiettato anche al cinema con enorme successo, pur non avendo grandi qualità filmiche ha suscitato un dibattito mondiale sulla corsa agli armamenti e ha probabilmente contribuito a una generale presa di coscienza dei terribili effetti di una ipotetica guerra nucleare. Il film mostra l’impatto della terza guerra mondiale sul microcosmo di Kansas City e dintorni, usando (nel bene e nel male) tutta la retorica del disaster movie. Pur dipingendo la generale sconfitta dell’intera umanità in una guerra che non permette di distinguere tra vincitori e vinti, The Day After è comunque saturo di patriottismo USA e rivela una (minima) dose di fiducia nella sopravvivenza delle istituzioni.

    Threads

    Simile, anche se di altro tenore, è un’altra produzione televisiva, questa volta della britannica BBC: Threads, trasmesso in Italia con il titolo Ipotesi sopravvivenza. Girato come un gelido e spietato docudrama, il film segue le vicende di due famiglie della cittadina inglese di Sheffield prima e dopo l’attacco atomico, fino a qualche anno nel futuro. L’orrore in Threads è reso ancora più terribile dal contrasto tra l’angosciante storia dei personaggi e la fredda, didattica descrizione degli avvenimenti, con dati sugli ipotetici megatoni caduti sulla Gran Bretagna, procedure di emergenza, stime sui numeri delle vittime. Terrificante è la scena dell’uscita dal rifugio della protagonista, che muove i suoi primi passi nel mondo devastato. Lo stile documentaristico è mutuato da un precedente televisivo, sempre della BBC, The War Game, considerato all’epoca troppo perturbante per essere trasmesso in televisione. Colpiscono, qui come in Threads, gli sguardi in macchina dei sopravvissuti, terrorizzati, smarriti, accusatori.

    Quando soffia il vento

    Ancora britannico è il film di animazione Quando soffia il vento, tratto dal fumetto di Raymond Briggs, tenera storia di due vecchietti della campagna inglese colpiti dalle radiazioni del bombardamento, che cercano di affrontare con calma la situazione seguendo i consigli del governo e la loro esperienza della seconda guerra mondiale, non riuscendo a immaginare le incomparabili differenze di quest’ultima con la moderna guerra nucleare. Evocativa colonna sonora di Roger Waters, con interventi di David Bowie, Genesis e altri.

    Hadashi no Gen

    Non vive invece in una immaginaria terza guerra mondiale ma nell’atroce realtà storica del bombardamento di Hiroshima la serie di film tratta dal fumetto Hadashi no Gen, basato sulle personali esperienze dell’autore Keiji Nakazawa. Il più riuscito è il commovente anime del 1983, fedele ricostruzione che mostra con stile espressionista lo scoppio della bomba e la dura vita dei giorni successivi dal punto di vista del piccolo protagonista.

    Con la memoria del bombardamento atomico sul Giappone e la difficoltà del raccontarlo a chi non l’ha vissuto si confrontano anche i due grandi registi Alain Resnais e Akira Kurosawa, rispettivamente con Hiroshima mon amour e Rapsodia in agosto.

    Terminator

    Notti squarciate da lampi laser, robot assassini, tappeti di teschi triturati dai cingoli di gigantesche macchine: è il futuro apocalittico e cupo del ciclo di Terminator, dove gli ultimi residui dell’umanità si nascondono nei sotterranei e combattono contro la loro stessa creazione. Skynet è una versione ipertecnologica dell’”ordigno fine di mondo” del Dottor Stranamore, un network di computer della difesa che diventa autocosciente e inizia una guerra nucleare per sterminare i suoi creatori che vogliono tardivamente spegnerlo.

    Sperimentale e poco conosciuto è La Jetée; girato in Francia da Chris Marker, il film è composto quasi interamente da un montaggio di fotografie che mostrano gli effetti della guerra atomica su Parigi e gli sforzi dei sopravvissuti di cercare una soluzione alla loro condizione con viaggi nel tempo. La pellicola ha ispirato Terry Gilliam per il suo L’esercito delle 12 scimmie.

    In Italia un intero filone, derivato dall’immaginario di 1997: fuga da New York di John Carpenter, utilizza il dopoguerra nucleare come pretesto per un’ambientazione di rovine e senza più controllo, dove gli avanzi della società si trovano a combattere tra loro o contro governi autoritari. Vale la pena di menzionare I nuovi barbari, 1990 I guerrieri del Bronx e 2019 Dopo la caduta di New York.

    Il titolo di questo post è un piccolo furto ai danni di Bonvi e del suo Cronache del dopobomba, a sua volta citazione del titolo italiano di un romanzo di P.K. Dick. Bonvi porta in una terra futura distrutta dalla guerra nucleare lo stile ironico e dissacrante di Sturmtruppen, rendendolo ancor più eccessivo e cinico.

    Cronache del dopobomba

  • Apocalissi d’autore

    Il filone catastrofico è certamente commerciale; eppure i suoi archetipi, specie quelli del genere apocalittico, sono stati presi a prestito da registi più tipicamente ascrivibili alla categoria degli autori, che ne hanno usato l’immaginario per metafore nel contesto di un percorso personale. Si tratta quasi sempre di pellicole dominate dal pessimismo, che lasciano poco spazio alla speranza o alla redenzione e in cui l’uomo viene spesso condannato a scomparire, a volte per sua stessa mano, in un cupio dissolvi autopunitivo, altre volte per elementi esterni superiori all’umana volontà e quasi divini.

    Il Dottor Stranamore

    Stanley Kubrick usa l’incombente minaccia della guerra nucleare per mostrare nuovamente con amara ironia la sua disillusione nei confronti dell’opera umana. Nel Dottor Stranamore passa una sfilata di personaggi caricaturali non all’altezza della situazione o comunque incapaci di controllare un sistema di difesa da loro stessi creato e, in definitiva, di impedire una fine del mondo che proprio quello stesso sistema avrebbe dovuto invece scongiurare.

    Il seme dell'uomo

    Nel divertito nichilismo di Marco Ferreri affonda l’umanità di Il seme dell’uomo: nell’arco di pochi minuti una misteriosa catastrofe, di cui vediamo solo residuali immagini televisive che mostrano intere città in fiamme, stermina l’umanità, lasciando ai pochi sopravvissuti il compito di ripopolare la Terra; ma un insondabile destino si accanirà anche contro gli ultimi superstiti, condannandoli a scomparire.

    Quintet

    Un amaro pessimismo avvolge anche Quintet di Robert Altman: in un mondo simbolicamente e irrimediabilmente avvolto dai ghiacci, dove una civiltà in estinzione ha rinunciato a qualunque progresso, tutto quello che resta è ingannare l’attesa della fine partecipando a un gioco che conferisce al vincitore diritto di vita e di morte sugli altri partecipanti. Come scoprirà il protagonista, l’unico senso finale del gioco è il gioco stesso.

    Sogni

    Anche Akira Kurosawa nel suo Sogni vede un futuro disperato, all’interno di una visione onirica e ammonitrice: in un episodio il vulcano Fujiama, simbolo stesso del Giappone, erutta distruggendo una centrale nucleare costruita alle sue pendici; per sfuggire alla radioattività, il popolo scompare in mare, suicidandosi. Restano un uomo, una donna e un bambino, che cercano invano di allontanare il colorato vento radioattivo sventolando la giacca, in un estremo gesto di disperazione. Ancor più cupo è l’episodio successivo: in un panorama ormai nero e indistinto, costellato di piccoli laghi color sangue e mostruosi fiori, resi giganteschi dalle radiazioni, gli ultimi residui dell’umanità si spengono tra lotte per la sopravvivenza e atroci dolori prococati dalla crescita di demoniache corna sulla testa.

    Fino alla fine del mondo

    Sempre la minaccia nucleare, questa volta a causa del possibile rientro nell’atmosfera di un satellite fuori controllo, domina nella trama di Fino alla fine del mondo di Wim Wenders, (che già era passato per l’apocalittico film nel film di Lo stato delle cose) in un road movie che celebra il disfacimento dell’immagine e la salvifica parola scritta; i protagonisti ripercorrono il cammino dell’umanità, dalla vecchia Europa all’Australia, verso la creazione di una macchina magica che si dimostrerà capace di registrare i sogni.

    Melancholia

    La depressione come risorsa nella fine è invece uno dei temi di Melancholia. Con la consueta crudeltà nei confronti dei suoi personaggi, il regista Lars von Trier ripesca dalla fantascienza classica lo scontro tra corpi celesti per esplorare sentimenti e paure di un piccolo gruppo di fronte alla inevitabile scomparsa della Terra, destinata a entrare in collisione con un gigantesco pianeta.

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